Qui di seguito riportiamo ampi stralci del discorso pronunciato da Diego Tajani alla  Camera dei Deputati l’11 e 12 giugno del 1875 in occasione della  “Discussione del progetto di legge sui provvedimenti straordinari di  pubblica sicurezza”.

PRESIDENTE. La Camera delibera un’inchiesta parlamentare sulle condizioni  della sicurezza pubblica nelle province siciliane e sulle cause  cui si possono attribuire, studiando i relativi rimedi.

TAJANI. Avrei voluto non prender parte alla presente discussione. Il  tema è ardente e, per ragioni che facilmente gli onorandi colleghi  comprenderanno, poteva sembrare prudente e anche patriottico l’astenermi.

Ma trattandosi di grave argomento, e del migliore avvenire  di nobile parte della patria nostra, e di contribuire a che si faccia un  po’ più di luce con le nozioni speciali che possiedo, e quando da tutte  parti, con tanta insistenza mi si tira, e mi trascina nella questione,  l’astenermi tuttavia poteva sembrare peggio.

Onde io parlerò, ma imponendo a me stesso una doppia condizione:  di mantenere elevata la questione al disopra di ogni meschino interesse  di partito o di persona, dicendo a tutti quello che a me sembra  essere la verità, e di restringermi a quei soli fatti, e, ove sia d’uopo,  dettagliarne, che abbiano per sé la più grande garanzia di certezza, sia  per la personale esatta conoscenza che ne abbia, sia per il riscontro  che trovino in documenti irrefragabili.

(Bene!)  La questione di Palermo, o signori; non è questione lieve, e la maggior  gravezza sua l’assume appunto per questo, che la sua complicazione,  e, direi quasi, la sua indole cangiante e variata, fa cadere in errore tutti  coloro che credono di poterne parlare senza avere passati degli anni  sopra luogo, e con i piedi in certi fondi, con la qualità di osservatore  disinteressato.

Gli stessi giornali più seri d’Italia furono quasi sempre inesatti sulle  cose della Sicilia, e talvolta, tratti in inganno da certi gridii locali di  origine sospetta, contribuirono assai al radicarsi di quei criteri erronei  con i quali si è creduto e si crede sempre di giudicare di ogni persona  e di ogni cosa, né si è mai posto mente a certi fenomeni, nonostante  la loro costante riproduzione. Noi, per esempio, assistiamo da più  anni a certe alternative continue nelle condizioni di quel paese. Un  giorno i preti, i reazionari, gli autonomisti cospirano e sono prossimi  all’attentato; scorsa una settimana, di cospiratori, di reazionari, di  preti, nessuno ha più udito parlare; un giorno i briganti brulicano  per la campagna e minacciano quasi le porte della città; il giorno  susseguente, di briganti non si parla più, se non per annunciare che  tutti cascano nella pania come tanti uccellini; ieri era l’inferno e tutti  se ne lamentavano, e giù una pioggia di lettere, corrispondenze,  interpellanze e che so io; oggi è il paradiso terrestre, e tutti ne sono  lieti, salvo a ricominciare domani in senso inverso e così continuare  all’infinito l’equivoco alternarsi.

È questo un fenomeno che non doveva sfuggire all’osservazione degli  uomini sagaci per indagare prima di tutto se e come, in provincie  così lontane dal centro e circondate dal mare, fosse possibile che una  coalizione d’interessi illegittimi potesse creare o disfare, esagerare o  sminuire d’importanza le più opposte situazioni e così baloccarsi nei  suoi biechi intenti, del resto del paese e del Governo centrale.

Questo Governo, o signori, da chiunque rappresentato dal 1860 ad  oggi, ha avuto molte cure perché potesse assumere ancora quello di  uno studio calmo dei misteriosi mali di quel paese ed il suo contegno  rispose perfettamente all’alternativa delle fasi locali. Un giorno si fa  violenza, poi la violenza fu corretta dalla fiacchezza, per quindi ritornare  alla violenza; ma l’una o l’altra che fosse, ebbe sempre un lato di  inopportunità, sia per il tempo, sia per la forma, sia per le persone,  sia per l’indole stessa del rimedio non adeguato al male.

E poi se volessimo dare uno sguardo complessivo a tutto il quattordicennio,  il quale si divide in due grandi periodi, noi non potremmo  non essere colpiti dalla stessa intonazione di colorito che vi ravvisiamo.

Dal 1860 al 1866 fu un continuo offendere abitudini secolari, tradizioni  secolari, suscettibilità anche puntigliose, se vuolsi, di popolazioni  animose, vivaci, espansive e che erano disposte a ricambiare con un  tesoro di affetti un Governo che avesse saputo studiarle e conoscerle.

(Benissimo! Bravo!) D’altro lato bisogna riconoscere che gli elementi della prosperità materiale,  specialmente dei più grandi centri, il Governo li ha gittati nell’isola.

Basta ricordare, o signori, la legge colla quale è stata sottratta alla  manomorta tanta quantità di beni immobili, e che ha creati migliaia di  nuovi proprietari, e quindi aumento della produzione e del commercio  d’esportazione. Chi negherà, signori, che il movimento del porto di  Palermo è dieci volte maggiore di quello che fosse nel 1860? Le poste  e la rete telegrafica quasi generalizzate, il capitale, forse meno che in  qualunque altro sito, in Sicilia non s’è mostrato pauroso; infatti, quantunque  in Palermo vi fosse già un’antica compagnia di navigazione a  vapore, ne è sorta una seconda in questi ultimi anni, ed in pochissimo  tempo è divenuta già potente, ed il Governo, con zelo lodevole, ha  presentato un progetto di legge sul quale è già pronta la relazione,  perché le venga fatta un’anticipazione di cinque milioni in Buoni del  Tesoro. Riguardo alle strade ferrate, ed alle strade ordinarie, non si  può negare che un 150 milioni, credo, siano stati gettati nell’isola, e  se questo non è tutto quello che la Sicilia poteva sperare di ottenere,  ove però vorrà considerare la sorte della Sardegna, la Sicilia troverà  qualche ragione di conforto. Ma, signori, se si guarda quello che le  fu negato, tutto questo ben di Dio assume le proporzioni dell’ironia.

Non creda la Camera che questo concetto sia mio; è dell’onorevole  presidente del Consiglio, del quale ricorderò le parole, avendo seguìto  con interesse tutto ciò che alla Sicilia si riferiva.

L’onorevole presidente del Consiglio, rispondendo ad alcune parole  dell’onorevole Paternostro Paolo, lo ringraziava di non avere suscitato  un’ardente questione (eppure l’onorevole presidente del Consiglio l’ha  egli suscitata oggi); egli, passato a rassegna ciò che s’era fatto per la  Sicilia, soggiungeva queste precise parole che so a memoria: «S’è fatto  molto per la Sicilia e desidererei che il Governo fosse in condizione  di fare di più. Anzi aggiungerò che il Governo ha usato talvolta verso  la Sicilia modi meno opportuni». Sono sue testuali parole.

Ora, se gli elementi di prosperità materiale erano concessi, e ne conveniamo  insieme, quali erano questi modi meno opportuni? E se l’onorevole  presidente del Consiglio avesse parlato da questi e non da  quel banco, avrebbe completato il suo concetto, l’avrebbe detto più  chiaro, avrebbe detto i modi peggiori. Sì, i modi peggiori, e perché?  Perché alla Sicilia è stato dato ogni bene materiale, se vuolsi, ma le è  stata negata la giustizia. (Bene!) Alla Sicilia è stata aperta la via ad ogni  maniera di arricchire, se si voglia, ma le si è spianata la via verso la propria corruzione. Le si è imbellettato il viso, lasciate che io il dica,  ma le si è insozzata l’anima.

(Bravo! Benissimo!) Delineata così nella forma la più rapida, che mi fosse consentita, la  situazione generale, è d’uopo che io passi a considerazioni più speciali,  e che mi innoltri, di tanto in tanto, nel mare bruno dei fatti. Debbo  innanzitutto dichiarare che non intendo attaccare nessuna persona, ed  ancora meno di tutti, gli attuali ministri su questo punto, imperocché  essi hanno dovuto subire una situazione così trovata, ed alla soluzione  della quale ci vuole ben altro che codesti progetti che ci spuntano  sottomano come i funghi. (Bene!) Essi hanno subìto, lo ripeto, una  situazione delle più oscure, che si potrà riparare soltanto avendo il  coraggio di fare piena luce. Conservando l’inerzia, viene il diluvio,  o, più ancora, provoca aggiungendo danni a danni, tenebre a tenebre  con provvedimenti di eccezione. (Bene! a sinistra)  Diceva l’onorevole Longo, il cui discorso io ammirai, che in Catania,  provincia ove egli con tanta lode esercita l’alto ufficio di primo presidente,  le autorità politiche, per dimostrare che colà vi fosse della  mafia, mi pare che dicesse che hanno dovuto ricorrere alla teorica degli  imponderabili. Ed era vero, signori; non solo in Catania, ma in tutta  la Sicilia orientale, lo stato della sicurezza pubblica è quasi sempre più  che soddisfacente; posso anzi assicurare che la provincia di Siracusa, la  quale ha quasi una completa rete stradale, è la migliore provincia d’Italia  in quanto a criminalità. Ricordo che un anno si dovette lavorare  molto per tenere aperta la Corte di assise solo cinque o sei mesi; pel  resto dell’anno vi mettemmo l’appigionasi per mancanza di processi.

Ma, se la mafia è un imponderabile per la Sicilia orientale, per Catania,  per Siracusa ed una parte della provincia di Messina, mi si permetta  (la verità sopra tutto) il negare che la mafia esista nella provincia di  Palermo, nella provincia di Girgenti, in una parte della provincia di  Trapani significa negare il sole, e, se nella parte orientale è un imponderabile,  vi assicuro che nella provincia di Palermo è qualche cosa che  si vede, che si sente, che si tocca purtroppo. (Oh! Oh! – Bravo! a destra)  Che cosa è questa maffia? Che cosa sono questi maffiosi? Abbiamo  viste delle definizioni che hanno dell’idillio; io ve lo dico in poche  parole: sono oziosi i quali non hanno mestiere di sorta, ed intendono  di vivere, e talora anche di arricchire, per mezzo del delitto.

Questa è la maffia, essa non è un’associazione nel senso grammaticale  della parola, poiché non ha un Codice, non ha regole, non ha tutte  quelle formole colle quali si entra in queste tenebrose associazioni; ma  siccome i maffiosi sono il vivaio dei malfattori, ne viene che quando  si deve commettere un reato si cercano, si avvicinano, si affiatano, e  quindi ne nascono i vincoli e le simpatie reciproche.

I maffiosi non hanno assolutamente regole, nel vero senso della parola,  ma è indubitato che non riconoscono la giustizia sociale, e potrei citare  molti esempi; il maffioso non parla mai anche se voi lo offendete  gravemente, parla quando crede di dover morire, e di non potersi più  vendicare; la maffia, infine ha una giustizia a sé, e talvolta i suoi verdetti  sono eseguiti presto e inesorabilmente: ricordo che una volta la maffia  decretò in un certo giudizio che un testimonio dovesse cessare di  vivere, fu pugnalato in 24 ore dopo il giorno nel quale aveva deposto!  Però dobbiamo affrettarci a distinguere, o signori, che questa brutta  cosa è la maffia, ma non è né Palermo, né la Sicilia, e questa distinzione  dobbiamo farla, perché la confusione di queste due cose ha condotto  spesso ai più erronei giudizi; questo resta inteso. Ma, a dire tutta la  verità, debbo anche soggiungere che la maffia sarebbe già stata domata,  come di simili male genìe che sono in altre città d’Italia, ed anche di  fuori si è venuto a capo, se per un certo non so che in quell’ambiente,  la maffia che è quasi doma in tutte le altre città, ove si mostra con nomi  diversi colà è meno vincibile, onde lo studio che deve farsi, a parer  mio non è sulla maffia, ma su queste ragioni per le quali la maffia è  invincibile in un sito, mentre è vincibile in un altro.

Potrei fare una discussione larga e dire che il sole caldo, che la terra  ferace, che il clima snervante concorre a far più numerosi gli oziosi;  lasciamo stare queste cagioni lontane, ve ne dico una che mi è sembrata  gravissima.

Le ricche e moltissime corporazioni religiose della Sicilia, che possedevano  quasi il terzo di tutta la proprietà fondiaria dell’isola, avevano  la pessima abitudine di distribuire gratuitamente tutti i giorni  una zuppa a coloro che non avevano altro merito che di stare colla  pancia al sole. Cessate le corporazioni religiose un buon numero di  questi oziosi, rimasti privi della loro zuppa divennero delinquenti.

Dirò di più: mi ricordo di aver letto un opuscolo recente nel quale è  detto che l’affievolimento del sentimento religioso ha una gran parte  in questi mali. Io credo invece che è il pervertimento del sentimento  religioso quello che in Sicilia ha reso più abbarbicata la maffia. E mi  spiego. Nel 1868 mi venne sott’occhio uno strano documento, una  Bolla pontificia, la quale aveva ottenuto fino allora l’exequatur. E cosa  diceva questa Bolla? Era un’autorizzazione che la Curia romana dava  a tutti i confessori della Sicilia di transigere con coloro che avevano  perpetrato ogni specie di delitti, e la transazione si faceva a suono di  monete. Si presentava un ladro e diceva: io ho rubato mille lire, le ho  mangiate e non le posso restituire. Non fa nulla, può rispondere il  confessore, ne hai serbata una parte per la Chiesa? (Viva ilarità) Ne  veniva così un aggiustamento, pel quale la Curia romana autorizzava  ad assolvere. (Oh! Oh! a destra)  Voci a sinistra. Sì! Sì! È vero!  Tajani. E poi veniva una filastrocca di reati che sembrava copiata dal  Codice penale: vi si parlava dello stupro e di ogni categoria di reati  contro le persone e le proprietà; a tutti era contrapposto il suo prezzo,  e questo era un po’ aumentato se, in caso d’omicidio, l’ucciso fosse un  prete, e (Risa) se poi fosse un vescovo cresceva ancora (Nuove risa)  non so di quanto.

Questo strano documento si chiama la Bolla di composizione. (Sì! Sì!)  È inutile già che io dica come io negai il regio exequatur e la sequestrai.

Ora vedano, signori, se tutte le specie di reati dei malandrini di città e  di campagna che si commettono in Sicilia non portano la fisionomia  della Bolla di composizione: là il reato non è che una transazione  continua, si fa il biglietto di ricatto e si dice: potrei bruciare le vostre  messi, le vostre vigne, non le brucio ma datemi un tanto che corrisponda  alle vostre sostanze.

Si sequestra e si fa lo stesso, non vi uccido, ma datemi un tanto e voi  resterete incolume.

Si vedono dei capoccia della maffia che si mettono nel centro di taluna  proprietà e vi dicono: vi garantisco che furti non ne avverranno, ma  datemi un tanto per cento sui vostri raccolti.

Ed ecco, signori, come il malfattore transige col prete a sinistra e colla  sua vittima a destra. Ed hanno preso dalla Bolla non solo la cosa, ma  anche il nome, di modo che quella si chiama Bolla di composizione  e queste transazioni colle vittime si chiamano componende.

È assai lontano il tempo, o signori, nel quale cominciò la vera sciagura  della Sicilia: la polizia dei Borboni rappresentata da un tale che si  credette un grande ingegno in materia di polizia, pensò chiamare a sé questa gente e parlare così: miei cari, voi ve la intendete così bene  col prete e colla vittima, intendetevela anche con me, facciamo una  componenda anche noi; una porzione di voi altri entrerete al mio  stipendio, ma però a patto che manterrete a freno l’altra metà; si sa  che qualche coserella dovete farla, ma dovete rispettare i galantuomini;  e li faceva rispettare. E coi mezzi che si poteva usare in un Governo  dispotico, si era severissimi verso codesti maffiosi ufficiali fino a farli  uccidere appena si constatasse la più lieve trasgressione a questo  contratto coll’autorità di sicurezza pubblica. Così si andava innanzi.

In tutte le rivoluzioni però (ciò che dimostra quanto sia stolta l’accusa  generale che si fa alle popolazioni), nei primi momenti di libertà che  hanno avuto quelle generose popolazioni, hanno cercato di distruggere  quella maffia ufficiale, i cui componenti, sotto il nome di sorci,  erano accoppati.

Fu fatta la prima ripulita nel 1848. Dopo il 1848 la maffia aveva ripigliato  il suo cammino anche più celere, e nel 1860 avvenne la seconda  spazzata.

I sorci furono massacrati, meno coloro che ebbero il piede lesto e  poterono fuggire per poi uscire fuori un’altra volta, nel 1866.

Venne il 1866: sarebbe estraneo all’argomento intrattenere la Camera  sulle cagioni intime di quel movimento, ne ho saputo alcune, ma  lasciamo correre.

Non accuso alcuno, ma certamente non si può ricordare con piacere  il contegno del Governo centrale dopo la rivolta e la solita ignoranza  della situazione locale.

[…]  Dopo la rivolta del 1866 vi fu un diluvio di disposizioni cozzanti fra  loro. Non so se la repressione militare sia stata fatta come si doveva; ma  dopo la guerra vennero i tribunali militari, i quali fecero un numero  sterminato di processi, e quando la posizione era compromessa, e che  la giustizia dei tribunali civili doveva riuscire difficilissima, se non  impossibile, si annullano ad un tratto i tribunali militari, ed i tribunali  civili rimasero imbarazzati, e così ne rimase sfatata la giustizia militare  e la giustizia civile. (Benissimo! a sinistra)

«Signori isolani, voi ci  portate il broncio, perché abbiamo urtate le vostre abitudini: ebbene,  ve le lasciamo tutte, comprese le pessime». Il che sapete che cosa  significa? Se c’è loto che vi giunge al ginocchio, noi saremo lieti se vi  giungerà sul viso. E questo, mi si permetta che lo dica, non fu atto di  buon Governo. Poi si dimandò: ma come facevano sotto i Borboni?  Allora si andava coll’oro in mano; i galantuomini erano rispettati! È  possibile che oggi noi dobbiamo essere al disotto dei Borboni? Facciano  lo stesso! Che grande ingegno! E che cosa si fece allora? Si chiamarono  di nuovo tutti quei sorci che erano scampati dalla tempesta;  furono chiamati a raccolta, e si fece, o signori, un danno gravissimo.

Qui è il peccato vero del Governo, che dura ancora e checché faremo  e decideremo, se ne raccoglieranno per lunghi anni miserie e dolori.

(Bravo! Benissimo! a sinistra) E chi potrà non maledire questo infausto concetto che venne alla  mente non so a chi? Fu questo il più grave colpo ad istituzioni fresche,  allora introdotte nel paese, e che si aveva il dovere di far sì che  ponessero salde radici. E perché fu un colpo alle istituzioni? Perché si  fece credere che le condizioni indispensabili alla vita della tirannide  fossero ancora le condizioni indispensabili per la vita della libertà!  (Bravissimo! Bravo! a sinistra)  Come cominciare ora a dire alla Camera dei fatti, ma non dei fatti  isolati, poiché sarebbe un pettegolezzo? Io devo dimostrare il sistema;  io non saprei far altro, quindi, che confidare, proprio col cuore sulle  labbra, alla Camera tutto il processo psicologico avvenuto in me, e  quindi metter fuori tutto quel seguito d’impressioni e di osservazioni  che io andava facendo a seconda dello sviluppo dei fatti sotto i miei  propri occhi, e lo farò rapidamente.

Io partii da Catanzaro per Palermo nel novembre del 1868. Non ebbi  alcuna notizia dello stato anormale del paese. Il Ministero, previdentissimo,  chiama un procuratore generale che aveva mostrato di  essere piuttosto irreconciliabile col delitto, sotto qualunque forma si  manifestasse, e lo manda là a Palermo.

Prima di partire da Catanzaro, che cosa leggo sui giornali? Un telegramma  di Stefani che annunzia essersi a Palermo scoperta una grande  cospirazione e che l’oculatezza della polizia era stata a tempo per  sedarla, e che oramai non c’era più pericolo, e che la giustizia faceva  il suo corso. Dopo tre giorni arrivo a Palermo, e prima di mettermi in  possesso chiamo due funzionari giudiziari incaricati dell’istruzione  e chiedo: che cosa c’è di tutta questa cospirazione? E i funzionari si  agitavano sulla sedia e non sapevano come incominciare.

Ma che cosa dunque c’è, parlate, voglio sapere che cosa è stato. Mi  si risponde: la cospirazione non esiste! Come! la cospirazione non  esiste? Non state facendo il processo? Non ci sono da 15 a 20 arrestati?  La cospirazione non esiste, e mi si racconta invece che un tale Abbadessa  aveva riuniti a centinaia dei programmi reazionari, ne avea  riempiti molti pacchi ed avendo fatto credere a due giovanotti orologiari,  che esisteva una vasta cospirazione e che gli Inglesi avrebbero  ricondotto Francesco II, profittava dello effettivo arrivo in Palermo di  una squadra inglese per far carbone, disse a quei due sciocchi che il  momento era giunto di prestar aiuto. Essi in fatti si erano recati nella  casa dell’Abbadessa, ne ricevevano i pieghi preparati ed uscirono per  portarli ai rispettivi indirizzi; ma, fatti pochi passi, la polizia li afferra,  trova naturalmente questi plichi e arresta tutti coloro ai quali i pieghi  non erano nemmeno arrivati.

Ebbene, che cosa avete fatto? io chiesi.

Ci hanno chiamati, siamo andati in questura.

E dell’Abbadessa che ne è avvenuto?  L’Abbadessa non l’abbiamo toccato. (Ilarità e movimenti diversi)  Ma perché?  Perché un alto funzionario di pubblica sicurezza ci disse che era un  suo agente! E così apparve evidente che la cospirazione l’aveva creata  la questura.

Questo è nulla, o signori. (Segni di attenzione)  Il primo sostituto procuratore generale di Palermo, che aveva tenuta  la reggenza prima del mio arrivo, allora venne a confidarmi tutto  sconfortato, che gli si era anche sussurrato all’orecchio che i veri cospiratori  fossero i membri della Giunta municipale, della quale, per  non so quali pettegolezzi municipali, se ne volevano disfare, e si faceva  intendere che doveva esaminarsi se fosse anche il caso di arrestarli,  ed il sostituto procuratore generale soggiungeva che si era schernito  adducendo il nessuno sviluppo delle prove. Il sindaco era un amico  personale dell’onorevole Minghetti, il commendatore Peranni, oggi  senatore del regno. (Movimenti diversi).

PRESIDENTE DEL CONSIGLIO. È verissimo, è un mio amico.

Tajani. Lo diceva per dimostrare l’importanza della persona e non  per altro.

Ne scrivo immediatamente al Ministero e gli dico: ma dove mi avete  mandato? Spiegatemi questa faccenda. Il Ministero mi risponde: avete  ragione, anche noi ne avevamo sospettato, però non fate scandali.

Allora ordinai l’avocazione del processo alla sezione d’accusa, ed al più  presto possibile gli arrestati furono messi in libertà; dappoiché di tutta la  cospirazione altro non restava che un reato di stampa, e siccome erano  scorsi tre mesi l’azione era prescritta e così ebbe termine quell’affare; e  tutti quei giornali più o meno del partito e l’agenzia Stefani, che avevano  annunziato al mondo la scoperta di una cospirazione si tacquero, tutto  rientrò nella calma e di cospirazione non se ne parlò più.

Passano due mesi; i principi di Piemonte vengono a Palermo per  rimanervi due o tre giorni. Si credeva che Palermo fosse un vulcano,  ridondasse di repubblicani. Eppure Palermo è la città la più tranquilla  di questo mondo (Bene! a sinistra), di repubblicani non ve ne sono  che 6 o 7, e se potessero avere qualcosa che rappresentasse loro il  principio monarchico al palazzo reale, i Palermitani sarebbero i più  felici di questo mondo. (Ilarità)  Io aveva previsto il ricevimento che ebbe luogo, poiché trattavasi di  una popolazione fantastica, espansiva, la quale, quando è presa per  il suo verso, se ne può fare tutto quel che vuolsi, e non poteva che  risvegliarsene l’entusiasmo, quando il principio monarchico veniva  rappresentato da un essere così esteticamente ideale come la nostra  principessa di Piemonte.

I principi che erano venuti coll’idea di trattenersi per pochi giorni, vi  rimasero più di 20. Era tanta l’espansione e così generale che i principi  si dimostrarono soddisfattissimi.

Due giorni prima della loro partenza accadde che essendovi chi vedesse  a malincuore quest’avvicinamento delle popolazioni alla nostra  gloriosa dinastia fu immaginata qualche cosa in occasione di una  rappresentazione di gala a teatro. Io non vi andai perché era in campagna;  ma la mattina un giornale che aveva relazioni colla questura  annunziava che la sera precedente dal loggione del teatro erano stati  lanciati molti bigliettini insultanti alla principessa Margherita. Possibile,  dissi io, che ora vogliano perdere tutto il merito che si sono  acquistati, per questi bigliettini? Esco, chiamo il procuratore del Re,  e gli do incarico di mandare subito a chiedere il rapporto in questura.

Ma io, che ero già sull’avviso pel fatto precedente, volli immantinenti  recarmi di persona all’ufficio di questura; il questore non c’era; trovai  un altro funzionario, e gli dissi: avete fatto rapporto? No perché vogliamo  far confessare quei birbaccioni. Dove sono gli arrestati? Fatemeli  vedere. Erano tre preti, due signore e due popolani, marito e moglie.

Mandai fuori il funzionario di sicurezza pubblica, e quei mi s’inginocchiarono  davanti, dicendo: finalmente vediamo una faccia cristiana,  una faccia da gentiluomo; signore, liberateci, siamo tutti innocenti.

Abbiano pazienza, diss’io, non voglio commedie, bisogna che io senta  come successero i fatti. Allora uno dei preti si espresse in modo che io  mi convinsi dell’innocenza degli arrestati. Questo prete era stato un  predicatore liberale, ed aveva avuto occasione di conoscere il principe  Umberto, credo, nel 1863 in Messina; le due signore erano sue sorelle,  le quali erano venute a Palermo per vedere le feste. (Ilarità)  Come terminò la cosa? Non solo si riconobbe che gli arrestati erano  innocenti, ma erano i testimoni del vero colpevole. Appena avvenuto  il reato, molte guardie di questura avevano arrestato i preti, ma  non un tale che, al fianco dei preti, aveva gettati in platea i cartolini;  però un maresciallo dei reali carabinieri, che era anche colà vestito  in borghese, lo aveva arrestato, e l’aveva consegnato alle guardie di  pubblica sicurezza; ma queste, una volta fuori del teatro, lo lasciarono  libero, e portarono in questura i due preti e le due signore. (Movimenti  diversi) Queste e quelli furono adunque posti in libertà; fu ritrovato il  colpevole, fu condannato, ed ora ha espiato la sua pena.

Ora dirò cosa che finora non ho detto ad alcuno. (Segni di viva attenzione)  Il principe Umberto stava per partire ed io mi recai presso il suo  aiutante di campo, il compianto generale Cugia, e lo pregai di dire al  Principe che non tenesse la città responsabile del brutto fatto successo  in teatro. L’aiutante voleva sapere maggiori particolarità, ma gli dissi  che io doveva rispettare in quel momento il segreto dell’istruzione; e  seppi poi che il Cugia si era informato dello sviluppo ulteriore dell’affare,  scrivendone ad un sostituto procuratore generale suo compaesano  ed amico.

Veniamo ad altri fatti.

Termini Imerese è una cittadina alla distanza di un’ora di strada ferrata  da Palermo. È la città più tranquilla del mondo; è città industriosa e  commerciale, ed è stata sempre il vero antemurale a tutti i movimenti  di Palermo. Per Termini i movimenti di Palermo difficilmente si sono  generalizzati nella provincia.

Non so se l’onorevole deputato di Termini Imerese, che non ho l’onore  di conoscere personalmente sia qui.

SALEMI-ODDO. Sono presente. È verissimo!

TAJANI. Egli che è del paese ricorderà questo fatto.

In quella città tutti fanno il fatto proprio; i negozianti pensano a negoziare,  i preti pensano a predicare il Vangelo, insomma è un paese  modello.

Ora, una mattina io ricevo improvvisamente varie lettere dalla prefettura  colle quali mi si annunzia che in Termini si era da tre o quattro  giorni proceduto all’arresto di otto o dieci preti perché si era scoperta  una grande cospirazione di cattolici che dovevano uccidere tutti i  protestanti. Non ce n’era pur uno (Ilarità); che questa cospirazione in  quel giorno aveva cominciato a tradursi in atto, e che contemporaneamente  i preti, assieme al suono delle campane, avevano annunziato  dai pergami il principio della strage.

Possibile, diss’io, che sia avvenuto tutto questo in Termini, senza che  io non ne sapessi nulla? Chiamai per telegramma il procuratore del  Re, ed egli venne subito. Gli mostro l’avuta comunicazione e gli domando:  che cosa è avvenuto in Termini? E come va che non mi avete  fatto nessun rapporto? Ed egli: ma costoro sono matti. Non sapete  che cosa è stato? A Termini abbiamo un mascalzone che vende Bibbie  protestanti, e nessuno gli dice nulla. Ma siccome ne vendeva poche,  un giorno si presentò innanzi ad una chiesa dove i preti ed i fedeli  accorrevano per non so quale novena ad un santo, ed incominciò ad  offrire le sue Bibbie ai preti sulla soglia della chiesa. Un prete lo tollerò,  un altro tollerò ancora, ma un terzo od un quarto meno tollerante  degli altri, gli disse: quanto vale questa Bibbia? Una lira. Datela qui. La  piglia, e dopo averla pagata, comincia a lacerarla. Era nel suo diritto.

Allora il venditore dice che la Bibbia vale tre lire. Ma voi avete chiesto  una lira, risponde il prete, ed io ve l’ho pagata.

E qui comincia il battibecco tra il prete ed il venditore sul prezzo da  pagarsi. Naturalmente in un momento tutta la gente che si recava in  chiesa forma capannello attorno al prete ed al venditore. E non è a  dire che tutti parteggiassero per il prete. Quindi cominciò qualche fischio,  qualche rumore. Allora vennero il maresciallo dei carabinieri ed  il giudice conciliatore, il quale disse: questo è affare che mi riguarda,  se voi credete che il libro valga tre lire, e se tanto avete pattuito, citatelo  avanti a me che vi renderò giustizia. Ed il carabiniere comportandosi  con prudenza, condusse al sicuro il venditore in caserma finché quel  gruppo di popolo si fosse dissipato. Questo è quanto avvenuto. E quindi  soggiunse che nella notte seguente a questo fatto si fece il verbale falso di  questa cospirazione, si erano arrestati i preti al principio del giorno, e si  era fatto loro traversare il paese, di tal che per la indignazione generale  della popolazione innanzi a questo sopruso, avrebbe potuto veramente  avvenire qualche disordine. Ed aggiunse: ma tutto finirà subito.

Io dissi: no, non prendete le cose così alla leggiera, perché, se la prefettura  è stata ingannata, la cosa è stata già per telegramma riferita  al Ministero; quindi mettetevi di accordo, fate un processo serio. Né  tralasciai di pregare il presidente del tribunale, perché andasse egli a  presiedere la Camera di Consiglio.

Si fece infatti un processo che pareva un plebiscito, furono esaminate  tutte le autorità paesane o forestiere che fossero, il sindaco, gli assessori  municipali e tutti i consiglieri, e tutti unanimi smentirono le false  accuse. Si pensò a questo punto di chiamare gli autori del verbale e  del rapporto, perché spiegassero, dove avevano pescati gli elementi  intorno a quanto avevano scritto; ma non si presentarono.

Rimaneva un verbale falso ed un rapporto inesatto. Si chiamarono  gli autori, ma non si presentarono. Finalmente fu pronunziata solenne  sentenza di assoluzione. Si scrive di nuovo al Ministero, ed il  Ministro mi dice: avete ragione. E dopo un paio di mesi si chiede il  processo, che fu subito spedito. Passano altri mesi; viene una crisi  parziale, il guardasigilli cade, e (pare incredibile!) mi vedo una mattina  il processo restituito con lettera del segretario generale, ove si diceva:  abbiamo trovato questo processo, non sappiamo che cosa significa; ve  lo rimandiamo, forse fu mandato per errore! (Viva ilarità a sinistra  e movimenti diversi)  Non basta. Naturalmente io saltai sulla sedia, e scrissi una lettera al  Ministero coma andava scritta, ed allora quel povero segretario generale  mi rispose con una lettera personale, che conservo, in cui mi  disse: scusate, voi avete tutta la ragione possibile, ma il ministro voleva  trattare lui questo affare, e poi non l’ha fatto; ora contentatevi che il  Ministero dichiari che voi anche questa volta avete salvato la giustizia,  anche questa volta avete salvato il prestigio della magistratura; quasi  che io richiedessi una soddisfazione personale, anziché il trionfo solo  della giustizia e la tutela della serietà e del decoro del Governo (Bene! a sinistra), e così fu chiuso questo affare.

 Nel corso di questo primo periodo io scrissi una lettera privata ad  una persona che stimava e stimo molto, e la pregai d’informarsi e di dirmi un poco, se le riuscisse possibile di che si trattasse ed a che  giuoco si giocava.

Mi venne una risposta tutta di suo carattere che diceva presso a poco così:  nel Ministero nessuno può volere di queste gherminelle, sono dispiaciuti,  ma molte cose si devono tollerare, perché con questo sistema, coll’organizzazione  di quel personale, il Ministero crede di poter distruggere la maffia.

Contro il mio carattere, facendo violenza a me stesso, io diventai simulatore  e dissimulatore creai la mia polizia, e volli vedere se realmente  si produceva questo gran bene al paese della distruzione della maffia,  e sventuratamente avvenne subito un grave fatto, assai caratteristico  per illuminarmi e formare in me la convinzione immediata che il  sistema era precisamente adottato per raggiungere lo scopo opposto  di quello che si voleva raggiungere.

Ebbene, un bel mattino nel 1869, d’estate mi pare, venne la notizia che  il questore era stato pugnalato nella piazza di Palazzo Reale.

Era cosa gravissima, non c’era severità che bastasse; per fortuna le  ferite non erano gravi· se ne riconobbe subito l’autore, fu arrestato, e  con una speditezza straordinaria, onde rialzare per quanto meglio si  poteva il principio d’autorità, si istruì il processo, ed io personalmente  mi sono recato alle Assise per sostenere l’accusa, e fu il colpevole  condannato a vent’anni di lavori forzati. E furono ben dati.

Ma, signori, questa è la parte esterna; quello che richiamava la mia  attenzione era la causale del reato. E quale era questa causale? Quell’assassino  era uno dei più pericolosi maffiosi, maneggiatore di coltello e  violento; il questore lo mandò a chiamare e gli disse: tu devi entrare  nelle guardie di pubblica sicurezza, e gli offrì, se ben ricordo, anche  un posto di graduato. L’altro, non so per quali ragioni, ma le avrà  avute naturalmente, rispose di no e si rifiutò recisamente. Persistette  il questore, e gli disse: ti accordo otto giorni di tempo per riflettere,  bada però che tu hai tali precedenti da essere mandato a domicilio  coatto, quindi pensaci bene: o entri a far parte delle guardie di pubblica  sicurezza o andrai a domicilio coatto. (Movimenti)  Allora quel maffioso cominciò per darsi attorno a cercare degli intercessori,  fece parlare al questore da Caio, da Tizio e da Sempronio;  ma il questore duro: o nelle guardie o a domicilio coatto (Ilarità a  sinistra), ed il maffioso, che si trovò nel dilemma, trovò una terza via  da uscirne. (Interruzioni in senso diverso)

Arrivato a questo punto io ho dovuto dire a me stesso: ma che razza  di reclutamento è questo? Si arriva a tal segno da farsi pugnalare per  reclutare una guardia.

E un’altra rivelazione vi fu per me in quel momento, vale a dire che si  voleva proprio, che era sistema questo di volere i maffiosi incorporati  nella sicurezza pubblica. E le mie osservazioni da quel punto diventarono  più serie. La minoranza della Giunta ha fatto un’osservazione  assai giusta nella motivazione del suo controprogetto, che non è inutile  qui ricordare.

«E qui non possiamo, essa ha detto, trattenerci dall’esprimere una  convinzione. Noi crediamo che sino adesso si è curato il sintomo,  ma non il morbo, il quale non è sradicato, ma si è sempre riprodotto. Si sono perseguitati, arrestati, uccisi, inviati a domicilio coatto molti  scorridori di campagna, ladri, tutti maffiosi; ma si sono colpiti i meno  pericolosi, i gregari e non già i capi. Rimasto intatto il semenzaio, l’erba  velenosa si è tosto riprodotta, e dopo breve tempo la società è stata di  nuovo tormentata. Difatti ci si assicura che fra i numerosi ed audaci  malfattori che facevano parte della vasta associazione recentemente  scoperta, la quale aveva commessi nella provincia di Palermo ingenti  furti, ardite grassazioni e tanti altri misfatti, ben pochi erano stati  ammoniti e neppure uno sottoposto a domicilio coatto».

Ora, entrando in una seconda categoria di fatti: comincio dal dire che  trovo bene giustificata la maraviglia di quegli egregi nostri colleghi  della minoranza, e soddisfo quasi ad una domanda implicita che in  quel periodo si contiene.

Debbo però rettificare qualche cosa intorno a quest’associazione scoperta  di recente. Non era un’associazione che scorreva la campagna;  era una associazione impiantata proprio nel centro della città di Palermo.

Il caporione di quest’associazione lo possiamo dire, poiché  è catturato, era un tale Marino, pessimo soggetto; il quale era uno  di coloro che non si contentavano di vivere, ma volevano anche ad  ogni modo arricchire, ed aveva le sue relazioni con quattro o cinque  falsi repubblicani da un lato e col partito clericale dall’altro, e nello  stesso tempo era uno dei principali agenti segreti della questura. (Si  ride a sinistra) Il questore se ne serviva, e faceva benissimo fino a questo punto, perché  se ne serviva per sapere ciò che si riferiva a quei partiti, come lo  sapeva io ma coi mezzi propri senza fare spendere danari allo Stato.

Io non ho documenti intorno a questo fatto e non dovrei dirlo; ma  lo asserisco perché resti consacrato nel mio discorso e affinché la  Commissione d’inchiesta che sarà nominata lo possa verificare; ma io  lo tengo per probabile, avendone anche assicurazioni in lettera di un  egregio gentiluomo, il quale mi aggiunse che il Marino rese, secondo  la questura di Palermo un grande servizio, poiché fu quello che coi  suoi intrighi contribuì a fare cadere nella rete Giuseppe Mazzini che,  come ognuno ricorda, fu nel 1870 arrestato nel porto di Palermo per  quindi denunziarlo alla polizia.

La questura di Palermo si fece un gran merito di questa cattura, poiché,  per quanto si disse, fu la questura di Palermo che avvisò il Governo  dell’arrivo del Mazzini, il quale veramente veniva là, non per semplice  diporto, ma i documenti non furono trovati e Giuseppe Mazzini  diventò un imbarazzo per il Governo, dal quale poté liberarsi con  un’amnistia.

Intanto, qual era il prezzo che aveva il Marino per questi servizi e per  altri che rendeva alla questura?  Udite: fu scassinata la cancelleria della Corte di appello e ne furono  involati moltissimi valori e tra gli altri molte migliaia di lire di rendita  al portatore.

Non fu mai possibile conoscere gli autori di questo audacissimo furto.

Mille erano le corbellerie che ci venivano riferite. Mi ricordo che  una volta che io aveva messo l’occhio su questo Marino, mi si fece  deviare, perché mi si sussurrò all’orecchio che forse il furto era stato  commesso dallo stesso cancelliere. Io allora, confesso, che rimasi un  pochino incerto, e feci tramutare il cancelliere, perché in un furto di  questa gravità lo scopo si voleva raggiungere, e col suo tramutamento  poteva impedirsi che fosse di ostacolo alla scoperta della verità.

Dopo quel furto se ne perpetrarono degli altri audacissimi nel centro  della città di Palermo: si rubò penetrando nel palazzo della duchessa di Beaufremont, si rubò nella casa della contessa Tasca si rubò nella  casa dei principi di Trabia e gli autori non si trovavano. Finalmente, siccome l’appetito vien mangiando, dopo la mia partenza, si è fatta  quella grande operazione del tunnel sotto una delle vie le più centrali  della città, si è penetrato nel Monte, e si sono involati dei milioni.

E per la confessione di qualcuno dei catturati intorno quest’ultimo  fatto si è infine saputo che questi furti erano stati commessi da un’associazione  diretta da Marino.

Ma andiamo innanzi. Sapete che cosa avvenne anche in quel turno  di tempo? Si scassinò il Museo, nientemeno, e se ne esportarono gli  oggetti più preziosi per centinaia di migliaia di lire di valori effettivi e  di valori scientifici ed archeologici. Neppure gli autori di questo furto  si potevano conoscere.

Ma un giorno l’autorità giudiziaria di per sé e per le imprudenze di  una donna viene a sapere che tutti questi oggetti esistevano in casa  di un certo Sebastiano Ciotti8, e con gran segreto, di notte, perquisì  quella casa, e tutti gli oggetti preziosi vi furono sequestrati. E sapete  chi era questo Ciotti? Era un graduato nelle guardie di sicurezza  pubblica, applicato all’ufficio centrale, ossia al gabinetto del questore.

(Esclamazioni e commenti a sinistra) Voci a sinistra. Avanti! Avanti!

TAJANI. Domando io a quanti sono gli onesti, e naturalmente lo sono  tutti in questa Camera; lo domando a tutti coloro che furono e sono  magistrati, dei quali io stimo di non essere stato indegno collega, se in  occasione della perpetrazione in quella città di furti di quella gravezza,  senza che se ne fossero potuti scoprire gli autori; se in occasione di  quelle pretese cospirazioni e con un’autorità giudiziaria meno oculata,  il presidente del Consiglio dei ministri d’allora fosse venuto innanzi  alla Camera e avesse detto: a Palermo si cospira, e la cospirazione si  va quasi esplicando in attentato; a Palermo si cospira e s’insultano  i principi della nostra augusta dinastia; a Palermo si cospira e agli  odi dei partiti si uniscono gli odi religiosi perché nientemeno che i  cattolici volevano uccidere i protestanti e la strage si è impedita per  la energia della sicurezza pubblica; a Palermo si commettono furti di  questa gravezza e i testimoni non parlano perché i ladri e la maffia   eccezionali (Bene! a sinistra)  Se io mi fossi trovato deputato e non avessi saputo nulla di tutta quella  roba, vi domando se voi non avreste detto con me: onorevole presidente  del Consiglio, avete tardato anche troppo, e non avreste votato  dieci volte dei provvedimenti eccezionali? E, tremo a pensarlo, cosa  ne sarebbe avvenuto? (Bravo! Bene! Applausi a sinistra)  Oggi si vogliono questi provvedimenti; oggi che i mistificatori sono  più cauti, oggi che la più pericolosa associazione dei malfattori interni  è catturata e mentre tutti i deputati siciliani, meno uno o due esclamano  e dicono: ma noi non vogliamo questi provvedimenti eccezionali; e  questi deputati che siedono su tutti i banchi, rappresentano l’ingegno  e il censo della Sicilia, essendovene non pochi ricchissimi.

Qui dunque ci deve essere qualcosa di serio, e questa opposizione  a unanimità, deve avere, ripeto, un qualche significato, perché non  posso ritenere per serio quello che si è detto, che i deputati siciliani  abbiano paura della maffia; ciò non è possibile. Ma, di grazia, è anche  paura che hanno protestato contro tante associazioni, tanti municipi,  e quasi tutti i prefetti? (Bene! a sinistra).

Ricordo ancora, o signori, che nel 1863, noi avevamo il brigantaggio  nelle Puglie, quello sì che era brigantaggio! Era organizzato in battaglioni.

I briganti davano delle battaglie alla truppa, assaltavano grosse  borgate; tutti i deputati del paese domandavano misure eccezionali, e  la Camera che cosa ha fatto? La Camera ha nominata un’inchiesta. Il  male era grave, ogni remora poteva riuscire fatale, eppure venne fatta  un’inchiesta, se fosse o non fosse necessaria, io questo ora non dico ma  la rappresentanza nazionale, prima di ricorrere a mezzi straordinari ed  intaccare lo Statuto, volle serbare tutta la solennità delle forme, si recò  sul luogo, volle verificare da sé i fatti, conoscere tutta la gravezza del  male e non fu che dopo tutto questo che votò una legge eccezionale.

Ed oggi, o signori, c’è il brigantaggio in Sicilia in battaglioni? L’onorevole  ministro l’ha detto, ci sono nove briganti in Sicilia!  L’onorevole presidente del Consiglio, con quella sua lealtà che tanto  l’onora, ha detto la verità, assicurando che le condizioni attuali sono  assai migliorate in Sicilia e che chiede i provvedimenti solo nel caso  che un peggioramento avvenisse.

Se dunque, quando vi era quel male gravissimo, che assumeva il carattere  quasi politico, la Camera ha preso tempo, ha fatto l’inchiesta,  perché oggi non si farà lo stesso, oggi che si tratta di riparare ad un  male tutt’affatto ipotetico?  Il formulare una risposta a questo argomento mi pare impossibile.

(Bene! a sinistra)  Ho voluto fare questa digressione per non contristare i miei onorevoli  colleghi con una storia troppo serrata e continua di tante nefandezze.

Ora che l’animo è alquanto sollevato e ho detto che cosa ha fatto la  maffia nell’interno della città, vediamo cosa ha fatto nei dintorni. Ripeto  che tutto quel che dico risulta da documenti, di alcuni dei quali  esiste l’originale e due copie legali, una delle quali trovasi depositata  nell’archivio di Palermo l’altra negli archivi del Ministero e la terza  legale presso di me. (Viva ilarità – Applausi a sinistra)

Ieri l’onorevole Pisanelli, nel fare la breve esposizione del suo emendamento,  disse con le parole eloquenti, a lui così ordinarie, come non  si potesse negare che nei dintorni di Palermo vi sono dei paeselli pieni  di mafiosi che circondano quella città, quasi corona di spine.

Veramente le campagne di Monreale non erano le più sicure del mondo,  anzi erano insecurissime ai miei tempi.

Ebbene cosa si fece, onorevole guardasigilli? Si chiamarono le spine le  più grosse di Monreale. Queste spine più grosse erano sei, tutta gente  coperta di delitti, tuttavia ad uno di essi si dette il grado di comandante  le guardie campestri, ad un secondo il grado di comandante una specie  di guardia nazionale suburbana, ed agli altri quattro maffiosi si diede  quello di capitani della guardia nazionale (Ilarità).

Erano tutti mafiosi, ed uniti insieme formavano una bella compagnia  di armati.

È qualcosa di incredibile, ma ve lo assicuro sotto la garanzia del mio  onore, oltre ai documenti. Quasi tutti i misfatti che accadevano nelle  campagne di Monreale accadevano o colla loro complicità o col loro  permesso.

Queste compagnie erano accampate; avevano delle casine. Ed il funzionario  giudiziario che era stato quattro anni colà, in un suo rapporto,  proruppe in questa esclamazione: qui si ruba, si uccide, si grassa; tutto  in nome del reale Governo. (Sensazione)  Non passava una settimana che non vi si trovasse un cadavere; si procedeva,  e la sicurezza pubblica, metteva innanzi all’autorità giudiziaria  o l’inerzia assoluta o impedimenti. Talvolta l’ucciso era un maffioso  di seconda mano, talvolta un principale offeso.

Quando le cose prendevano un aspetto allarmante, la questura chiamava  questi caporioni e diceva: ebbene, il troppo è troppo, mantenete  le vostre promesse. Allora si passava la parola e si faceva un po’ di  tregua, e poi arrestavano una cinquantina di maffiosi d’ultima mano  e li costituivano come capri espiatori di tutti i delitti gravi che avevano  essi stessi perpetrati e l’autorità giudiziaria doveva sottostare al compito  ingratissimo d’iniziare tanti processi, dopo i quali si dovevano  mettere in libertà gli arrestati. (Ilarità a sinistra) Allora si esclamava:  ma come volete che manteniamo la sicurezza pubblica se l’autorità  giudiziaria libera tutti quelli che arrestiamo! (Ilarità)  Un uomo del quale non dico il nome, ma che è ben noto all’onorevole  Rasponi10, un brigadiere delle guardie campestri, si è arricchito accampandosi  in altre campagne, mettendo imposte fondiarie, imposte di  ricchezza mobile, di dazio-consumo. (Si ride) I proprietari dovevano  pagare sul ricolto del grano, sul ricolto del vino ed altro, come prezzo  del rimanere tranquilli e non patire ricatti!  Passo ora ad accennare altri fatti gravissimi di altro circondario e i  quali mi risultano da otto o dieci rapporti dei reali carabinieri, rapporti  dei quali fu inviata copia al Ministero, oltre i rapporti sulle indagini  giudiziarie.

Un delegato di sicurezza pubblica, accampato in un mandamento, vi  impianta la maffia, si unisce e si lega in relazioni amichevoli con noti  ladri, e tutti ritengono che li mandi a rubare per suo conto.

Un giorno, un maresciallo dei reali carabinieri induce alla presentazione  spontanea un latitante, e si era inteso che sarebbe andato a  prenderlo in una pagliaia poco lontana. Ora, il delegato, saputo di  questa presentazione, corre dal maresciallo e gli dice: maresciallo, è  vero che state preparando la presentazione di quel latitante? Sì. Allora  andiamo, andiamo ora assieme ed uccidiamolo. Il delegato era  alquanto brillo e quegli gli risponde di non essere affatto disposto a  ciò e gli volge le spalle. Ma nel mattino appresso il maresciallo va per  prendere il suo uomo e trova la pagliaia abbruciata, ed i resti di un  cadavere umano. (Oh! Oh!)  Il delegato, divenuto impossibile in quel mandamento, venne tramutato  in un altro, e qui si cominciò da capo, e non ricordo se in questo  stesso mandamento o in un altro fu sospettato di aver fatto appiccare  in una casa disabitata di campagna un altro catturato, del quale temeva  alcune rivelazioni.

Finalmente ebbe altro destino e l’autorità giudiziaria che inquireva, in un  suo rapporto assicura, ed è purtroppo vero, che quando questo delegato  ebbe date tali prove della sua condotta si promosse capo del circondario,  e si fa comandante provvisorio dei militi a cavallo. (Oh! Oh! a sinistra) Ed  allora cosa fa? Sceglie quattro individui della sua comitiva, leva i cavalli  agli altri. Fra questi quattro ce ne era uno… o due…, uno me lo ricordo  certamente, condannato niente meno che alla reclusione perpetua, ossia  ergastolo, sotto il Governo passato, per furto accompagnato da omicidio,  il quale fu fatto sotto-comandante o brigadiere dei militi a cavallo. Così  costituiti formarono una specie di associazione, mantennero rigorosamente  l’ordine, e preservarono dai furti il proprio circondario del quale  erano risponsabili, ma si unirono con una quindicina di ladri di seconda  mano, e li mandavano a rubare cavalli e buoi in tutti i circondari vicini.

(Movimenti a sinistra) E talvolta avveniva che i comandanti dei militi a  cavallo di colà indovinavano la traccia degli animali rubati, allora questi  venivano dispersi per le campagne, ed in una di queste circostanze fu  anche ritenuto da tutti che il ladro spedito a consumare l’abigeato fosse  stato spedito all’altro mondo, per assicurarne l’eterno silenzio.

Mi domanderà la Camera: ma e che facevano i carabinieri reali in mezzo  a questa baraonda? Io lo dichiaro altamente, i carabinieri reali, salvo  poche eccezioni, hanno mantenuta alta la riputazione di onestà (Bene!  Bene! Da tutte le parti), e ne hanno data la più gran prova, se non  si sono corrotti in quelle gravissime condizioni. (Benissimo! Bravo!) Si dice che i carabinieri in Sicilia non prestarono gli stessi servizi che  altrove. Sicuro! Ma quale ne è la ragione? Perché erano stati esautorati  completamente, perché la sicurezza pubblica non voleva che i  carabinieri facessero dei servizi. (Sensazione) E potrò indicare alla  Commissione d’inchiesta che sarà nominata ufficiali di una specchiata  abilità ed onestà, ed ufficiali superiori dei carabinieri, i quali venivano  da me a dirmi questo stato di cose.

E giacché trovomi a parlare dei reali carabinieri, voi comprenderete  che trovo di un grande significato come in questa raccolta di documenti che sono 50 e più, non abbia trovato un solo rapporto dell’arma. Si riferisce ai documenti, per lo più rapporti di prefetti e magistrati, presentati  dal Governo in commissione per giustificare l’emanazione di provvedimenti  straordinari di pubblica sicurezza.dei carabinieri (Sensazione), come è possibile che l’arma dei carabinieri,  che ficca il naso dappertutto, che è interrogata su tutte le cose divine  ed umane, non abbia dato il suo parere sull’argomento che discutiamo?  Non lo credo; e ho dovuto piuttosto credere che l’arma dei reali  carabinieri, che conosce intera la verità, ha dovuto essere contraria ai  provvedimenti eccezionali.

Ma vi è di più. (Segni di attenzione) L’arma dei carabinieri non solo  venne esautorata in quel modo, come ho detto, ma quando si azzardava  a fare qualche cosa ed unirsi alla magistratura, si è arrivato sino al punto  di censurarla. Udite! Un giorno un individuo che apparteneva all’alta crème fu accusato di  omicidio in persona di un soldato e di mancato omicidio in persona  di un caporale. L’autorità giudiziaria aveva fatto il suo dovere ed aveva  spiccato il mandato di cattura. Io ho saputo che quel tale era andato  nella provincia di Girgenti a dirigere certi lavori. Allora io non sapeva  neanche chi fosse e che appartenesse ad un’alta camarilla, e mandai il  mandato di cattura al maresciallo dei carabinieri da cui dipendeva la  località.

Dopo quattro o cinque giorni ebbi una lettera privata del procuratore del  Re il quale mi disse: voi non avete fatto passare per mio organo un mandato  di cattura contro Tizio, ma lo avete mandato forse direttamente;  ora io vi debbo dire che l’altra sera il mandato di cattura è stato eseguito,  ma questa mattina ho saputo che l’arrestato è stato rimesso in libertà.

Allora io immantinente scrissi al maresciallo, e gli dissi: cosa avete fatto  del mandato di cattura? Il maresciallo mi rispose (ed esiste la sua lettera,  della quale credo che il Ministero abbia avuto una copia): la cattura  fu eseguita; ma da Girgenti è venuto un ordine del prefetto perché si  mettesse in libertà. (Oh! Oh! Rumori e movimenti a destra e a sinistra)  […]

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del  progetto di legge sui provvedimenti straordinari di pubblica sicurezza.

A seguito di un’interruzione di Lanza, Presidente del Consiglio nel periodo  indicato da Tajani, scoppiarono in Aula disordini che costrinsero il Presidente  prima a sospendere e poi a sciogliere la seduta. La discussione riprese il giorno  successivo con la prosecuzione del discorso di Tajani.

La parola spetta all’onorevole Tajani per continuare a svolgere il suo  ordine del giorno.

Tajani. Signori, con calma forse anche maggiore di quella colla quale  ieri sottoposi alla Camera dei fatti e degli apprezzamenti, oggi io  continuo e concludo il mio discorso, e così si chiude una serie di  dolorosi sacrifizi e di doveri ancora più dolorosi che da più anni mi  sono imposto per concorrere, nei limiti delle mie povere forze, alla  redenzione della nostra maggiore isola. Ed alla calma ed alla serenità  posso dire che oggi io aggiungo ancora la notizia, imperocché, è inutile  il cullarci in lusinghe, la fibra della moralità è assai floscia oramai in  Italia; ma ieri io vidi con immenso giubilo l’agitazione di questa alta  Assemblea, e quando l’agitazione prese quasi l’apparenza di tumulto,  la mia gioia non ebbe più confini ed io fra me dissi: la virtù in Italia  sonnecchia, ma non è morta! (Benissimo! a sinistra) Imperocché  quell’agitarsi tumultuoso dimostrava che si sentiva il dolore, e questo  dolore si manifestava in vario senso a seconda delle simpatie, degli  interessi e dei principi di ciascuno; ma la impressione dolorosa era  generale. Lasciate che il tempo dissipi le passioni, e allora resterà la  verità, alla cui luce e Governo e Camera e cittadini onesti incammineranno  sulla retta via le cose di Sicilia.

Prima di proseguire la narrazione del fatto, che mi fu rotta a metà  dall’onorevole Lanza, io riassumo ciò che dissi per lasciarne ordinata  memoria nella coscienza di tutti gli onorandi miei colleghi.

I fatti dei quali io tenni parola vanno divisi in tre categorie; una parte  di essi non può andare, né andò soggetta a processo: erano cose  amministrative, sempre portate innanzi in linea amministrativa; per  altri fatti i processi potevano farsi, e si fecero, appena i documenti  furono nelle mie mani, quantunque le notizie di questi fatti delittuosi  io già le possedessi da tempo; ma il conoscere i fatti non significa  avere la possibilità di fare il processo, e chi ha potuto avere sott’occhio  una sola volta questi processi, e quindi discorrerne con cognizione  di causa, vedrà senza alcun dubbio che le date dei documenti sono  quasi immediate all’inizio dei procedimenti. Ma io non ho visto la  fine di alcuno di questi processi, perché lasciai il mio posto, e non  sono responsabile dei loro risultati.

Io ho parlato solamente di quella parte di indagini alla quale non dava  altra forza che quella di un processo amministrativo. Un’altra parte  dei fatti andò soggetta a processo, ed è stata seguita dall’affare Ciotti  e da un altro di cui non ricordo il nome. Infine vi è un altro fatto gravissimo del quale io debbo dichiarare alla Camera che non feci motto  alcuno, imperocché trattasi di avvenimento grave sul quale valeva  la pena di chiamare l’attenzione della Camera; ma siccome questo  grave fatto troppo si connette col mio nome e colla mia persona, io  che rispetto troppo la dignità della Camera e la mia stessa, credetti di  non intrattenervene. Ma perché non abbia questa reticenza ad essere  interpretata in modo poco favorevole alle mie intenzioni, dichiaro  nettamente che intendo parlare di quell’unico processo a carico del  questore di Palermo, del quale io debbo in certo modo assumere la  responsabilità essendo state le requisitorie da me scritte, sottoscritte  e pubblicate.

E che dirò di questo processo? Ne dirò poco, o signori. Una sentenza  della sezione di accusa lo chiuse col non farsi luogo a procedimento  penale per insufficienza d’indizi.

L’onorevole guardasigilli ha letto o leggerà quella sentenza e mi farà la giustizia di dire che vi hanno delle sentenze di assoluzione che  valgono peggio di una sentenza di condanna. (Movimento a destra)  Il guardasigilli mi farà l’onore di non contraddirmi e potrà rilevare,  quando avrà comodo leggere quel documento, come ivi erano sette  accusati nella prima parte; un mandante e sei mandatari; che per il  mandante si disse esservi insufficienza di indizi; per i sei mandatari  si disse la reità provata, ma che solamente per una difficolta di procedura,  la sezione di accusa della Corte di appello si credette inabilitata  a rinviarli innanzi alle Assise.

Io non entro in tutti gli incidenti che precedettero e accompagnarono  questa assoluzione, non intendendo io, senza necessità di difesa  moltiplicare fatti innanzi alla Camera.

Ripiglio adunque il mio discorso dove ieri lo lasciai.

Mi sembra che lo lasciassi al punto in cui narrava alla Camera la  liberazione compiuta di uno colpito da un mandato di cattura per  ordine arbitrario di un’autorità politica, e poiché ho presso di me il  rapporto fatto al Ministero dove naturalmente si rilevano con esattezza  matematica tutte le circostanze di questo fatto, ammesso anche  dal Ministero, così io non dirò altro e mi limiterò a darvi lettura di  questo documento.

Se ricordate, ieri vi ho esposto come io fossi avvisato, di quel fatto  abbastanza grave, da una lettera confidenziale del procuratore del  Re, e ieri a sera passando in rassegna questi fatti antichi ho potuto  ricordare che il procuratore del Re era precisamente un nostro collega  che siede in questa Camera, l’onorevole Inghilleri […] il quale senza dubbio potrà assicurare alla Camera che fu edotto di quello scandalo,  non so in quale guisa, e che quantunque sia rimasto estraneo all’esecuzione  di quel mandato di cattura, pure si credette, per la gravezza  del caso, nel dovere di immediatamente informarne la procura generale;  però l’onorevole Inghilleri potrà ricordare che spedì un sostituto  procuratore generale, oggi consigliere presso la Corte di appello in  Cagliari, ordinandogli di fare un’inchiesta puramente riservata per  uso di ufficio.

Ora io posso addivenire alla lettura dei documenti che sono abbastanza  brevi. E si noti che la data di uno di essi è del 25 ottobre 1869  cioè appena nel primo anno che io mi trovava a Palermo, onde ebbi a  maravigliarmi quando sentii dirmi da alcuno che erasi tardato troppo  nel manifestare quello stato di cose.

Ascolti la Camera: (Legge) «Il 17 settembre 1866 (il primo anno della mia permanenza in Palermo), quando qui in Palermo ferveva l’ultima sommossa, in Lercara  due colpi di arma da fuoco partiti da una pattuglia uccisero un soldato  e ne ferirono altri due. In sulle prime, per rapporto dei reali carabinieri  e di altre autorità, parve che si trattasse di un tentativo di rivolta e si  aprì un processo, divenuto voluminoso, contro parecchi individui;  ma in fin dei conti fu liquidato, che la pattuglia della guardia nazionale  girava il paese per imporre alla plebe, sull’esempio di Palermo,  minacciosa, e che il signor X componente la pattuglia, esplodendo  di suo arbitrio i due colpi del suo fucile a doppia canna contro un  individuo sospetto, che alle intimazioni della forza pubblica si pose  a fuggire, raggiunse invece quegli infelici soldati che stavano inermi  innanzi alla porta del proprio quartiere.

Per tal fatto, la Camera di consiglio del tribunale di Termini, con  ordinanza del 29 settembre ora scorso, pronunziava non farsi luogo  a procedimento per tutti gli imputati del sospettato crimine politico,  e spediva mandato di cattura contro il sunnominato X, ordinando  il rinvio degli atti alla sezione d’accusa, per la sola imputazione di  omicidio volontario e di due ferimenti in persona dei tre soldati.

Erano in questo stato le cose quando con un riservato rapporto del 20 corrente del procuratore del Re di Girgenti, mi manifesta avere saputo  con certezza che il comandante della stazione dei reali carabinieri di  Cattolica aveva catturato (senza riguardo al grado ed alle influenze  del casato), certo signor X, ma che, dopo la cattura l’autorità politica  di quella provincia, facendo pervenire al comandante la stazione un  suo salvacondotto sino al 21 corrente, imponeva il rilascio del catturato. Soggiunge in ultimo lo stesso procuratore del Re di essere stato  anche assicurato che il comandante la stazione in sulle prime si era  rifiutato, e che in forza di replicati ed assoluti ordini aveva finito col  cedere ponendo in libertà il signor X.

Era così grave il fatto riferitomi, che non potei accettarlo subito come  completamente esatto; ma anche prima di disporre altre riservate  informazioni, mi giunge una lettera originale del comandante la stazione  dei reali carabinieri di Lercara, colla quale si denunzia all’ufficio  d’istruzione di Termini come essendosi saputo che il signore X si trovasse  nel territorio di Cattolica, provincia di Girgenti, si era a quella  stazione spedito il relativo mandato di cattura, che colà il catturando  cadeva nelle mani della forza nel 15 corrente, e che per ordine del  prefetto di Girgenti era stato nel seguente giorno rimesso in libertà.

(Sensazione a sinistra)  Così ogni altra informazione è divenuta inutile; il fatto è indubitato.

Sin oggi né al procuratore del Re di Girgenti, né a quello di Termini, né alla procura generale è giunto alcun rapporto dell’autorità politica  di quelle provincie, né si ha alcuna traccia del signor X».

Ascolti la Camera come si scriveva al Ministero nel primo anno della  mia permanenza a Palermo.

«Quale considerazione posso io soggiungere che non nasca spontanea nella E.V. alla semplice lettura di questo rapporto? Mi limito solo ad  aggiungere che l’autorità giudiziaria di questo distretto ben molte  concessioni fa all’autorità politica e attingendo di continuo nel proprio  patriottismo quella prudenza tanto necessaria in luoghi e tempi eccezionali,  ha tollerato assai. Ma la tolleranza non sarebbe ora una colpa?  In molti luoghi l’autorità politica si è messa su di una brutta china  in fatto di arbitrii; ma almeno scusa di tale contegno era la necessità  dell’ordine nelle città e della sicurezza nelle campagne; ma ora dove  andiamo? Quale scusa quale spiegazione si darà al fatto della ordinata  evasione di una persona del ceto civile, catturata per regolare  mandato?  Il Ministro intanto converrà meco che il silenzio non può serbarsi di  fronte a questi scandali e che tanto l’interesse della giustizia, quanto il  prestigio e il decoro dell’autorità giudiziaria, esigono una riparazione,  forse anche un’inchiesta. Ma è dover mio non passare oltre, senza  prima chiedere le superiori direzioni dell’E.V., che spero vedermi  giungere al più presto».

Veniva la prima risposta col 31 ottobre, in cui il Ministero, adottando  un linguaggio assai degno, diceva: «Rispondendo alla nota della S.V. illustrissima, segnata in margine, la ringrazio della fattami relazione.

Nel tempo stesso, riconoscendo tutta l’importanza della cosa, nell’interesse  della magistratura e della legge, ho in questo senso diretta  già una nota al Ministero dell’interno, e terrò informata la S.V. dei  provvedimenti che verranno presi. Intanto gradirò che la S.V. illustrissima  mi riferisca degli ulteriori incidenti che abbiano, per avventura,  potuto accadere».

Dal 31 ottobre giungiamo al 27 novembre, e si chiude l’incidente con  questa lettera:  «In relazione alle note di codesto generale ufficio del 25 ottobre decorso, e 5 e 6 novembre corrente, numeri 281, 303, e 311, mi pregio  parteciparle che, chiesti schiarimenti al Ministero dell’interno relativamente  all’operato del signor prefetto di Girgenti, questi, mentre è di  parere che non sia il caso d’un provvedimento qualunque di punizione  assicura che farà a quel funzionario serie rimostranze, onde un simile  procedere irregolare non si rinnovi. Nel comunicare ciò alla S.V. illustrissima, mi pregio parteciparle che  sto attendendo pure ulteriore risposta sul fatto del Signor sotto-prefetto  di Termini».

Debbo dire, per debito di lealtà poiché si è messo in campo il nome del  prefetto di Girgenti, che conosco personalmente, e che ora è a capo di  un’altra provincia, debbo dire che, mentre era accusato il prefetto di Girgenti,  venne da me nell’ufficio l’ora defunto generale Masi, che nomino  con senso di compianto, e dissemi: siamo stati noi. Quale importanza  possa dare a queste parole dell’egregio generale Masi, non lo so, ma le  confido alla religiosità della Camera e del Ministero, più nell’interesse  del prefetto di Girgenti di allora che per qualsiasi altra ragione.

Adempiuto questo debito, debbo ricordare come dopo questo fatto,  pel quale il ministero dell’interno credette che non fosse il caso di  applicare punizioni, ne avvenne un secondo.

Avemmo a poca distanza da Palermo due maffiosi accusati di stupro  e di mancato omicidio nella persona del di lei padre, e messi fuori  carcere e forniti di un salvacondotto. Questi si servirono del salvacondotto  per recarsi dinanzi alla casa dove erano gli offesi, dove era  la stuprata ed ancora nel letto ferito il padre di essa. La donna, che  era madre e moglie, rispettiva degli offesi, coi capelli scarmigliati,  uscì fuori per il paese gridando ad alta voce che ormai non vi era  più giustizia, che si cacciavano i carcerati dalle prigioni, perché andassero  ad insultare le vittime sulla soglia della propria casa. (Segni  d’indignazione a sinistra)Mi si è fatto un telegramma; il sindaco del paese mandò a chiamare i  reali carabinieri, e questi hanno fatto il loro dovere, catturandoli, senza  tener conto d’un salvacondotto inefficace del quale erano muniti. E  con dolore debbo riconoscere che, essendo venuto nelle mie mani  quel documento, appiedi di quel salvacondotto, non permesso dalla  legge, ho trovato il visto arbitrario di un giudice d’istruzione, che fu  severamente redarguito per questa sua condiscendenza.

Ed il più grave fu questo, che il sotto-prefetto di Termini li fece porre  di nuovo in libertà, e che per un momento si vagheggiò pure la pretesa  che i reali carabinieri, i soli che avevano agito in perfetta legalità,  venissero puniti!  Intanto ascolti la Camera in qual modo io riferiva al Ministero questo  fatto, non intorno ai dettagli, ma intorno alle considerazioni: «Non posso finalmente tacere la sorpresa che mi recava il provare  al piede di una delle cartelle possedute dai catturati un visto di un  giudice istruttore di Termini, al quale io credo fosse stato strappato  quando si pretese e si ottenne la scarcerazione dei tre catturati in  Roccapalomba».

Mi astengo dal fare rilievi morali su quanto ho sottomesso all’intelligenza  del Ministero.

«I fatti che ho riferito e gli altri che potrò riferire in appresso, non sono  fatti isolati, ma sono conseguenza di un sistema, nel quale la morale  e la giustizia non entrano in grandi dosi, sistema che un giorno poté  sembrare opportuno, che più tardi parve convenire per le molte noie  di meno che generava, e del quale oggi ogni persona d’animo retto  deve desiderarne la modificazione. Però il modificarlo è anche di per  sé un problema che io non devo concorrere a rendere più difficile, ma  che non lascerò sfuggire occasione per chiamare su di esso l’attenzione  del Governo del Re».

Parlava già di sistema nel primo anno della mia sede a Palermo. Questo  rapporto porta la data del 25 novembre 1869.

È inutile che io venga narrando alla Camera il modo come il Ministero  fosse stato edotto, dal primo giorno in cui io sono andato a quella  sede fino all’ultimo in cui ne sono uscito, di tutto ciò che avveniva.

L’onorevole guardasigilli dovrà ricordare che nel mese di novembre 1873, tenendo sempre lo stesso linguaggio, io pubblicai due lettere sul  giornale Il Pungolo di Napoli.

Dicembre 1873 l’onorevole Nicotera domandava al guardasigilli se avesse  preso visione di quelle lettere, nelle quali, in fin dei conti, non vi era che  il riassunto di quanto ora ho manifestato; ed il guardasigilli disse di non  averle lette (e non si può mettere in dubbio questa sua assertiva), ma  che avrebbe prese informazioni, e che i calunniatori, se ve ne fossero,  sarebbero stati puniti, e che, se fossero stati veri, si sarebbe provveduto.

Allora io, avendo rilevato dal resoconto ufficiale della Camera che la  mia persona veniva quasi quasi indicata colla veste d’imputato, mi  affrettai a scrivere una terza lettera, che non feci conoscere al pubblico,  ma che raccomandai alla posta, direttamente all’onorevole guardasigilli,  nella quale gli dissi che, volendo prendere informazioni, io non  desiderava di meglio, che per tal ragione io manteneva sempre ferma  la questione, poiché io voleva che la storia della Sicilia si completasse;  e soggiunsi: le informazioni sull’isola sono bell’e fatte; onorevole  guardasigilli, ella non ha che a mettere la mano nell’archivio; prenda  i miei rapporti; e, per facilitargliene la ricerca, le unisco un elenco col  numero e data, e colla risposta.

Voglio cessare dal torturare la mente e il cuore della Camera con  questa tristissima narrazione di fatti. Non posso però astenermi dal  citarne ancora uno caduto già nella vostra giurisdizione.

Nel 1871, quando il Comitato privato della Camera discuteva le modificazioni  alla legge del 1871, un avvocato di Sicilia presentava una  denuncia, nella quale si accennava ad alcuni fatti imputabili ad agenti  di sicurezza pubblica.

Questo stampato fu mandato a me per informazioni, ed io ebbi a riferire  che dei fatti nello stesso contenuti, qualcuno era assolutamente  falso, qualche altro esagerato; ma ve n’era uno vero e gravissimo, pel  quale fornii dettagli e documenti.

Si trattava di un tale Lombardi, imputato di omicidio ed appartenente  all’alta maffia. La sicurezza pubblica, naturalmente, non aveva fatto denunzia,  ma l’autorità giudiziaria aveva fatto da sé, raccogliendo valide  prove contro il Lombardi. Spedito il mandato di cattura, il processo  era già pronto per essere trasmesso alla sezione di accusa; quando in  un mattino mi giunge un incartamento riservato della questura; io  apro questo incartamento, e trovo un verbale redatto da un ispettore,  nel quale si indicava come autore di quell’omicidio un giovinetto di  17 anni di cognome Tamaio.

È il caso già esposto nella requisitoria di Tajani del 1871, per il quale era  imputato l’ispettore di pubblica sicurezza Figlia. Al sol vedere il modo col quale era concepito quel verbale, lo reputai  falso. Ciò non pertanto chiesi al sostituto procuratore generale che  teneva allo studio il processo contro il Lombardi, che prove vi fossero; mi disse che eranvi prove gravissime, e che già stava per presentare la  requisitoria pel rinvio alle Assise; gli presentai l’incartamento per vedere  che impressione su lui facesse, e l’impressione fu uguale alla mia.

La sezione d’accusa ordinò un prosieguo d’istruzione, e fu provata nel  modo più luminoso la falsità di quel verbale. Concorsero alla raccolta  delle prove il colonnello dei carabinieri e molte persone distinte. La  sezione d’accusa con una gravissima sentenza disse che la prova era  già piena contro il Lombardi, ma che alla prova antica si aggiungeva  quella del tranello, sono parole testuali, dell’autorità di pubblica sicurezza  contro l’innocente Tamaio. Il Tamaio per insussistenza di reato  fu liberato, ed ebbe luogo il dibattimento contro l’accusato principale.

Nell’incartamento esiste una lettera gravissima del presidente della  Corte d’assise, ora consigliere di Cassazione in Palermo, dalla quale  risulta che egli era profondamente indignato nel vedere come una  schiera di delegati di pubblica sicurezza si fossero prestati a procurare  un alibi falso a discolpa all’accusato. (Movimenti a sinistra) Ho promesso di non citare altri fatti; tronco il mio dire colla lettura di  un documento. Gli onorevoli nostri colleghi componenti la minoranza  della Commissione facevano fondamento del loro controprogetto un  brano del discorso inaugurale di quest’anno, chiamandolo autorevole,  e lo era senza dubbio, del sostituto procuratore generale cavaliere  Sangiorgi. Ma se il discorso di un sostituto procuratore è autorevolissimo,  il discorso del procuratore generale è arciautorevolissimo. (Risa  d’approvazione a sinistra)  Ebbene, il procuratore generale di Palermo nel discorso inaugurale  del 1874, appena un anno prima di quello a cui fa appello la Commissione,  che cosa scrive?  Dopo avere fatto nel discorso una requisitoria piuttosto grave all’indirizzo  del sistema seguito dall’amministrazione di pubblica sicurezza,  scrive così: «E perché non appaia forse avventato il mio dire, ponendo  da canto quanto pure potrei dire relativo a siffatte influenze e protezioni  a pro dei volgari delinquenti, basterà che io rimembri soltanto  ciò che in un mandamento è avvenuto alle porte stesse di Palermo  come, ad esempio, di quello che, in maggiore o minore grado, avvenne in altri moltissimi». Che cosa è questo che avvenne in moltissimi  ancora nel 1874?  Al mandamento di Misilmeri erano 39 guardie campestri, delle  quali 22 del comune, ecc. Innumeri erano i danni arrecati alle  campagne; furti e tagli d’interi vigneti ogni dì succedevano, e  lettere minatorie ed estorsioni, e nonché querelarsi, preferivasi  dai danneggiati soffrire, tacere e pagare, tanta era la tema ispirata  da chi? Dai malfattori? No… Dal corpo delle 22 guardie di  Misilmeri, nucleo e stromento ad un tempo della maffia locale…  (Esclamazioni di orrore) La coscienza pubblica, ecc. poi così soggiunge: «…e i furti, i tagli di vigneti e le lettere di scrocco, mandate via le  guardie, finirono come per incanto».

TOMMASI-CRUDELI. Ma erano guardie comunali!  Tajani. Erano guardie campestri; è un corpo speciale, non ha a che  fare colle guardie comunali, è un corpo che nomina il prefetto.

TOMMASI-CRUDELI. Quando lo sono, lo sono dietro proposta del sindaco.

Tajani. Ora mi pare che puossi dire «che questo sia suggel, che ogni  uomo sganni;» e che cosa è questo brano del discorso dell’attuale  procuratore generale del Re in Palermo, senonché il riassunto di tutto  il mio discorso? (Bene! a sinistra)  Sono gli agenti della pubblica sicurezza in moltissimi mandamenti della  provincia, che spediscono lettere minatorie, che consumano ricatti  e furti! È da essi loro che parte la intimidazione ai principali offesi ed  ai testimoni! E i furti, gli scrocchi, e le lettere minatorie cessano come  per incanto quando questi corpi si sciolgono. (Benissimo! a sinistra)  Dunque, autori dei reati gli agenti della pubblica sicurezza, autori delle  intimidazioni gli agenti della pubblica sicurezza; rimedio: sciogliete  la sicurezza pubblica. Questa è la risposta del procuratore generale  di Palermo del 1874.

Signori, che cosa abbiamo noi dunque colà? Lasciate che io restringa  in un quadro sinottico tutto ciò.

Noi colà abbiamo: le leggi ordinarie derise, le istruzioni un’ironia, la  corruzione dappertutto, il favore la regola, la giustizia l’eccezione, il  delitto intronizzato nel luogo della pubblica tutela, i rei fatti giudici, igiudici fatti rei (Bravo! a sinistra), ed una coorte di male interessati fatti  arbitri della libertà, dell’onore, della vita dei cittadini, Dio immortale!  Che cosa è mai questo se non il caos? Che cosa è mai questo se non il  peggiore dei mali: la anarchia del Governo, innanzi alla quale cento  briganti di più, e cento crimini di più sono un nonnulla e si scolorano?  (Benissimo! a sinistra)  Ora che il quadro a colori piuttosto foschi è innanzi agli occhi della Camera,  quali insegnamenti ne trarremo, e quali consigli per l’avvenire?  Il primo suggerimento è questo: che la maffia che esiste in Sicilia non  è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di  governo locale, questa è la prima verità incontrastabile.

Dippiù, come volete che quando una parte di quei ceffi rappresenta  la forza pubblica, come volete che tutti i cittadini siano degli  eroi, ed abbiano la forza, il carattere, il coraggio civile di deporre  con piena libertà, quando sanno che questa giustizia è in una certa  sua parte almeno, nella parte esecutiva, rappresentata da coloro  che per i primi dovrebbero esserne colpiti? L’altro insegnamento è questo: che le leggi non funzionano completamente per la  mancanza di fiducia degli amministrati nell’amministrazione.

Imperocché, o signori, che cos’è mai una legge? Una legge è un  pezzo di carta; essa sarà buona, sarà pessima, sarà ottima, se sono  buoni, se sono pessimi, se sono ottimi i funzionari che le devono  infondere l’anima.

Immensamente peggio sarebbe se si trattasse di una legge eccezionale.

In un paese dove avvengono (lasciamo tutto quello che ho detto  io), dove avvengono i fatti di cui parla il procuratore generale, cosa  avverrà ove si applichi una legge eccezionale? Naturalmente chi è che  non può aver fiducia in una Commissione composta dal prefetto, dal  presidente del tribunale e dal procuratore del Re? Ma questi signori  vanno essi in giro per la campagna per trovare i manutengoli? Questi  signori giungono essi fino ai bassi fondi per pescare i sospetti? No,  signori: le prime informazioni verranno loro dai militi a cavallo, da  quelle tali guardie campestri; cosicché potete stare certi che su cento  manutengoli o sospetti che saranno denunciati alla Giunta, la metà  sarà composta di innocenti, di principali offesi, o di coloro su cui  quella mala genìa deve esercitare una qualche sua vendetta (Benissimo!  a sinistra)  Mi ricordo ciò che diceva un giorno Beniamino Disraeli in un suo  discorso: noi diamo troppa importanza ai sistemi e troppo poca agli  uomini. In senso inverso, modificando la frase, potremmo applicare   lo stesso concetto a noi: noi diamo troppa forza alle leggi e troppo  poca a coloro che sono chiamati ad applicarle. Ora, che cosa avviene  in Italia? Avviene questo, che quando una posizione si fa difficile,  invece di esaminare perché si è resa difficile, e chi sono i responsabili,  si dice che la legge è cattiva.

E questo sistema appunto della irresponsabilità personale è il gran  padre della mania delle leggi nuove e delle leggi eccezionali; poiché,  in mancanza della persona responsabile, è necessità che paghi le spese  la legge dichiarata insufficiente ed inefficace. (Benissimo! a sinistra)  Ebbene, bisogna una buona volta uscire dalla pessima via.

Il ministro dell’interno, dopo questa discussione, potrebbe assumere  la responsabilità dell’esecuzione di una legge eccezionale in Palermo,  quasicché l’amministrazione stessa fosse monda di ogni peccato? Pare di no.

In Napoli vi è la camorra, la quale ha molto contatto colla maffia; anzi,  in quanto ad organizzazione, la camorra è superiore alla maffia. Ma  chi ha paura della camorra? Nel 1860 era ordinata ed armata a squadre, e tentò un momento di  diventare governo; ma fu ricacciata nei bagni penali o nei siti dove  meritava d’essere respinta, e buona parte di merito è di un uomo  onesto e robusto che oggi siede sul banco dei ministri, intendo parlare dell’onorevole Spaventa, e lo dico a suo onore. (Movimenti) E se non  si fosse avuto il coraggio di far questo in Napoli nel 1860, Napoli si  troverebbe nelle condizioni in cui si trova Palermo. (Bravo! a sinistra)  Oggi signori, bastano un prefetto e un questore di oneste e rette intenzioni  perché quei ceffi di Napoli vadano a centinaia al domicilio  coatto, e nessuno se ne commuove.

Dirò anzi di più: nel 1868 ricordo che una Corte d’assise di Napoli,  presieduta dal nostro egregio collega, l’onorevole Capone, condannò  dei camorristi a gravi pene, per il solo fatto di essere camorristi; come  associazione di malfattori, e senza prove di alcun reato speciale. Perché  ora tutto questo non avviene a Palermo?  Lo abbiamo visto; è inutile ripeterlo. I paralleli sono così facili a farsi  che è inutile che io ripeta la serie degli argomenti in proposito.

Il rimedio sta nelle persone. Cangiate il personale. La questione  della Sicilia non è di leggi nuove, ma di persone; tanto più quando  le cose sono giunte a questo punto; quando tanti disgraziati incidenti  renderà [sic!] sempre più difficile, sempre più pericoloso,  nella sua applicazione, ogni provvedimento eccezionale, e tanto  più poi che il progetto in discussione è stato dettato non dallapiena coscienza della situazione, imperocché noi abbiamo veduto  pioverci attorno progetti sopra progetti, modificazioni sopra  modificazioni, lo che dimostra che non vi è un concetto chiaro,  fermo, preciso intorno al male ed ai suoi rimedi. (Bene! a sinistra) Perché, se questo concetto ci fosse stato, formulata la legge, là si  sarebbe dovuto fermare il Ministero.

Invece noi ci troviamo dinanzi tutti questi progettini ed articoli unici,  che, scusate, hanno resa la cosa assai poco seria, o, peggio ancora,  dovremmo fotografare la situazione come lo avrebbe fatto con quattro  sole parole quel solenne storico che fu Tacito: corruptissima repubblica  plurimae leges. (Benissimo! a sinistra) Vengo all’ordine del giorno.

L’onorevole nostro presidente lo ha letto; io, conseguente a tutto  ciò che ho detto, non sono venuto alla conclusione di accettare,  ma nemmeno di rigettare i vari progetti che ci sono sottoposti. Noi  abbiamo il fatto dell’inchiesta, accettata da tutti, Ministero, destra,  centro e sinistra, in quanto, già si intende, l’inchiesta sarebbe affatto  inutile; conosco pur troppo di che si tratta. Ma vi è necessità d’illuminare  tutti; per conseguenza, si faccia l’inchiesta; ma l’inchiesta  non è che la diagnosi del male, e noi metteremo il carro innanzi ai  buoi; noi, mentre si studia il male, salasseremo il malato; mentre  invece, fatta la diagnosi, si troverà che il malato ha bisogno di un  purgante; tutto ciò ha qualcosa di assurdo. Ma dice l’onorevole Minghetti:  mentre l’inchiesta servirà a studiare l’origine del male, noi  abbiamo dei mali, e dobbiamo curarli; sta bene. Ma ci sono questi  mali così acuti? L’onorevole Minghetti ha detto che non ci sono; ce  lo ha detto lui colle sue parole e colle parole dei due migliori e più  autorevoli documenti.

E l’onorevole egregio nostro collega Rasponi, già prefetto di Palermo,  dice in un suo rapporto, che tutto porta a credere, e che sia assolutamente  ingiustificata tutta questa baraonda che si fa intorno alla  straordinaria acuzie nella condizione di sicurezza pubblica in Sicilia.

E l’onorevole Guerra, al cui rapporto rendo omaggio, perché è un  documento veramente scritto in modo da potersi leggere, l’onorevole  Guerra cosa dice? Che già prima di recarsi in Sicilia aveva egli subodorato  ciò che avrebbe trovato, cioè una grande esagerazione nelle  condizioni della sicurezza pubblica, e che il tanto rumore menato,  derivava non da cresciuto numero di reati, ma più tosto da circostanze  peculiari che avevano accompagnata la consumazione di certi  reati di malandrinaggio. Non dico con ciò di averla trovata nello stato normale, ma certo non in uno stato per cui occorrano provvedimenti  eccezionali.

L’onorevole Minghetti ha detto: ma potrebbe darsi, potrebbe venire  una recrudescenza. Ma come! Noi dobbiamo sacrificare l’incolumità  delle istituzioni fondamentali ad una ipotetica necessità? E, l’onorevole  ministro, questa necessità ipotetica si dovrebbe verificare in pochi  mesi. Ora, il volere poteri eccezionali per esercitarli ipoteticamente  in breve tempo, mi pare che sia una quasi contraddizione nei termini;  poiché a tempo accorciato e brevissimo non possono assegnarsi molte  esigenze, tanto più se si consideri che la passata recrudescenza ancora  fu provata non rispondente al rumore che se ne era menato.

Ora non mi pare ragionevole che si debba sacrificare anche la logica, che non si debba aspettare quei pochi mesi che sono necessari per fare  un’inchiesta, e votare dei provvedimenti eccezionali i quali, volere o  non volere, possono apportare molte spiacevoli conseguenze, avuto  riguardo anche allo stato degli animi ed allo eccitamento generale  nella Sicilia. No, non mi pare che vi sia una ragione sola, una ragione  seria, da opporre a questo mio ragionamento. Lo dico con tutta la  buona fede del mondo.

Dunque col mio ordine del giorno si ammette l’inchiesta e si vuole nel  tempo stesso la sospensione delle diverse proposte di provvedimento  eccezionali, con riserva di prendere decisione definitiva a posizione  più precisa e chiara. Faremo una legge eccezionale o faremo qualche  modificazione alla legge attuale di sicurezza pubblica, secondo le idee  della maggioranza della Commissione; prenderemo in serio esame  l’emendamento presentato dall’onorevole Pisanelli; faremo insomma  quello che si potrà fare per rendere, secondo una frase molto  accentuata dell’onorevole Indelli, meno pettegola la legge di sicurezza  pubblica; faremo infine qualcosa di più serio, di più duraturo e che  sarà ricevuto dal paese.

Ma votare una legge la quale è esautorata sino dalla sua presentazione,  perché, quand’anche tutti noi, quand’anche 300 deputati la votassero,  e i 40 della Sicilia non la votino, è una legge la quale i Siciliani  riterranno che non possa avere effetto nel loro paese, è imprudente,  è pericoloso, è assurdo. Ricordatevi che la Sicilia è un’isola, e le isole. La polemica politica contro i provvedimenti straordinari di pubblica sicurezza  porta Tajani a minimizzare la precarietà della sicurezza pubblica; in generale  tutto il suo discorso è efficace nella denuncia delle illegalità commesse da funzionari  governativi, ma non è altrettanto incisivo nell’analisi delle componenti  del fenomeno mafioso, che resta piuttosto sullo sfondosi considerano come qualcosa di distaccato, di autonomo (Rumori  a destra), e quindi essi crederanno, e io o credo con loro, che quella  legge non possa essere circondata di tutta quella forza morale senza  di che una legge eccezionale è impossibile che produca buoni effetti.

Ma se il ministro vorrebbe qualche cosa d’eccezionale, nel periodo  dell’inchiesta, io invece ho detto: confidiamo nell’impero della legge.

Come poteva astenermi dallo scrivere questa frase nel mio ordine  del giorno, dopo una discussione di questa natura? Dopo che per più  giorni abbiamo detto: legge violata, può un Parlamento senza esautorarsi  non pronunziare una parola per la quale si ritorni il prestigio  alla legge? Mi pare impossibile che vi possa essere alcuno che discordi  da questo mio sentimento.

Da tutto quello che si è detto bisogna persuadersi che in Sicilia quel  che manca oggi è un’idea esatta della parola: Governo. Bisogna ricostituirla  questa idea; bisogna accerchiarla di un’aureola imponente,  perché, se non si comincia da questo, non si farà mai nulla. È vero  che questa è tutt’opera amministrativa; che il Ministero dovrà farlo  per mezzo del personale, ed ammetto pure volentieri che lo farà, ma  io che conosco la posizione, credo ben poco però si sia fatto finora,  né ho visto adottato alcun rimedio eroico.

Prima di tutto ci vorrebbe un prefetto. Abbiamo avuto il prefetto Rasponi,  ma v’è stato appena un anno.

Io ci sono stato tre anni e, dico la verità, nei primi tempi ho fatto il  novizio, l’apprendista, e solo al terzo anno ho potuto cominciare ad  aver documenti, ed allora da apprendista divenni maestro di cappella;  ho fatto suonare la musica, fu trovata un poco forte, ma era musica  che avrebbe fatto ballare. (Ilarità a sinistra)  Il prefetto Rasponi, che è tanto superiore a me per ingegno e per pratica  amministrativa, non avrà avuto bisogno di due anni di noviziato,  e dopo il suo anno sarà diventato maestro di cappella; ma il tempo di  operare non l’ha avuto, perché è andato via quando cominciava a fare  arresti importanti. Conosco tutto il personale e mi parve che quell’arresto  non doveva essere un fatto isolato ma l’inizio dell’esplicazione  d’un miglior sistema che sarebbe stato il sistema da me vagheggiato,  e che avrà per risultato finale la tranquillità del paese ed il rispetto  della legge.

E se intanto la posizione è migliorata, e se si deve dar merito al Ministero  d’averla fatta migliorare per quanto era possibile, ciò non  pertanto c’è molto da fare ancora, e noi Parlamento, noi dobbiamo  appoggiare il Governo in questa sua santa missione.

Il Ministero deve procedere franco e senza riguardi umani in questa ricostruzione morale e legale, ma noi dobbiamo agevolargli la via.

Che cosa direbbe la Sicilia se il Parlamento chiudesse questa solenne e così grave discussione senza darle una parola di consolazione? Cosa direbbe se, dopo tanto parlare di delitti da un lato e di provvedimenti  eccezionali dall’altro lato, non venisse fatto un cenno della legge? Questa parola deve essere pronunziata, poiché è qualche cosa che  darà una soddisfazione morale a quelle popolazioni: che si crederanno  risollevate ad un livello superiore. Chi adunque potrà ricusare la  frase del mio ordine del giorno, colla quale si dice: confidando intanto  nell’impero della legge passa all’ordine del giorno? Accettiamo  questa parola signori, ed avremo fatto quello che sta nei nostri poteri  per ricollocare sul loro trono di luce la giustizia, la moralità, la legge.

(Applausi prolungati a sinistra)  […] Tajani. Io rendo prima di tutto omaggio alla forma pacata, cortese e  degna della posizione che egli occupa nel Parlamento, che l’onorevole  Lanza ha dato al suo discorso, e poiché il suo discorso ed il mio mi pare  che possano camminare assieme e paralleli, senza avere quasi punti  di contatto, anziché risposta, io non debbo che alcune dichiarazioni  intorno ai fatti da me specificati.

L’onorevole Lanza intorno a questi fatti si è fermato solamente a quello  di Marino, ed ha detto che il questore di Palermo non ne sapeva  nulla del fatto della venuta del Mazzini, e quindi niuna possibilità  che il Marino entrasse per nulla nella faccenda. Io debbo ricordare  che quando annunziai questo fatto, che non era nemmeno nei miei  propositi di accennare, subito mi affrettai di aggiungere che non aveva  alcun documento, meno una lettera privata. Quindi siamo d’accordo  e posso esserlo, perché quando l’onorevole Lanza parla con conoscenza personale di un fatto, non può essere menomamente sospettato  d’inesattezza.

Segue l’intervento dell’onorevole Lanza per replicare fermamente alle accuse di Tajani e chiedere la nomina di una Commissione parlamentare di nove membri «col mandato di verificare i fatti criminosi denunciati, e di proporre, occorrendo,  di procedere contro gli autori in via di legge». Si può concludere che da questa  vicenda scaturì la prima inchiesta sulla mafia approdata in Parlamento, che poi  in seguito diventò Commissione Antimafia.compagnie non si riunivano per nominare gli ufficiali, questi si nominavano  dal rappresentante del Governo. Il fatto poi della formazione  di quelle compagnie di guardia nazionale in odore di pessima maffia,  è un fatto che lo sanno tutti, e risulta da un lunghissimo documento  che sarà a disposizione della Commissione d’inchiesta.

La scarcerazione del Palermo l’onorevole Lanza non l’ha negata, ma  l’ha solamente attenuata, ed io debbo dichiarare che la giustizia non  guarda alle persone; quando le è venuto nelle mani un imputato di  omicidio lo considera come tutti gli altri; ho sentito che era in Girgenti, ho spedito là il mandato di cattura, ed io non posso assolutamente  convenire coll’onorevole Lanza che un prefetto possa dare un salvacondotto;  l’onorevole guardasigilli sa bene che un salvacondotto ad un  latitante non lo può dare nemmeno l’autorità giudiziaria, salvo in un  caso, quando cioè questo colpito da mandato di cattura deve rendere  testimonianza alla giustizia.

Il Palermo era di condizione civile, e, catturato o no, non è qui che  sta la gravezza dell’affare; la gravezza dell’affare io la trovai in questo,  che si demoralizzava l’arma dei carabinieri. Quando un maresciallo o un brigadiere dei carabinieri esegue un mandato di cattura ricevuto  dalla procura generale e dopo è costretto a rilasciare il catturato in  forza di un salvacondotto non riconosciuto dalla legge, e lacerare il  verbale già redatto, non può a meno [sic!] di perdere del suo prestigio  e della sua intierezza. È questo un punto che non è stato toccato dall’onorevole Lanza.

Non avrei più nulla a rispondere, senonché avendo l’onorevole Lanza  consacrato buona parte del suo discorso al processo Albanese, sebbene  io prima avessi dichiarato che di questo processo non terrei parola,  perché non mi pareva che fosse della dignità della Camera venir qui a  fare dei pettegolezzi personali, mi trovo ora costretto ad occuparmene,  appoggiando le mie parole a documenti.

La prima domanda che l’onorevole Lanza ha fatto è questa: il Governo ha lasciato libero il potere giudiziario?. Era il comandante della pattuglia di guardia nazionale che aveva per errore  ucciso un soldato, scambiandolo per un malfattore. Lanza aveva sostenuto che egli  era munito di un salvacondotto rilasciatogli dal prefetto di Agrigento, prima del  mandato di cattura, per andare a trovare la moglie malata e consentirgli quindi di  costituirsi, evitando l’onta dell’arresto; il maresciallo dei carabinieri che lo aveva  fermato lo rilasciò dietro indicazione del prefetto «d’accordo col colonnello dei  carabinieri», e il Palermo andò quindi a costituirsi, come pattuito con le autorità.

 A questo riguardo io ritengo che la libertà vera del potere giudiziario si trova nell’indipendenza dell’animo. Se avete un magistrato servile, basta un piccolo segnale di favore o di sfavore, perché si perda la sua indipendenza;  se avete un magistrato che si rispetta, il caso è ben diverso.

Prima d’iniziare il processo, che poi nel suo sviluppo coinvolse anche il questore, processo col quale io intendeva, più che una persona, colpire  un sistema, ne feci cenno vagamente al Ministero, a fine di esplorarne  le intenzioni. Ed il guardasigilli mi ha risposto con lettera che potrò  far nota, ove sia necessario, alla Commissione, in tono agrodolce, e  presso a poco così: «Se volete fare il processo, fatelo bene e serio ed  arrivate fino al fondo». (Benissimo! a sinistra) Aspettino un momento; io non so, ma parmi che l’onorevole guardasigilli  non si trovasse d’accordo con quel precedente, perché nella  sua condotta posteriore, quando il processo venne iniziato, allora io  mi accorsi che il Governo mi aveva quasi abbandonato, e allora fu  che io diedi le mie dimissioni. Che fece il Ministero? Non respinse le  dimissioni e non le accettò; mi fece un telegramma in cifra col quale  diceva: «Ministero sospende di provvedere sulle vostre dimissioni».

(Bene! a sinistra) Ma che cosa era questo se non una spada di Damocle  sopra il capo di colui che doveva fare il processo…  Voci. Eh no! Sibbene! Tajani. Andai innanzi, e ad onta di questo, io dichiaro che la mia  indipendenza, per fatto subbiettivo, non rimase punto menomata,  quindi non ne faccio colpa alcuna al Ministero.

Andiamo innanzi: diceva l’onorevole Lanza, che il procuratore generale nientemeno voleva estendere il processo sino al prefetto, e di  chiederne l’arresto. Ciò non solo non è esatto, ma debbo fermamente  dichiarare che non mi è mai venuto in mente questa strana idea.

[…] Naturalmente in un fatto di quella natura si sa che la responsabilità morale può, a seconda dei casi, salire in alto, ma sarebbe strano il  solo pensare alla responsabilità legale, e tanto meno nella specie io  poteva concepire idea siffatta, in quanto che ben conosceva i benefizi  materiali in opere pubbliche ed altro, ottenuti dal generale prefetto in  pro del paese, e pei quali meritamente godeva moltissime simpatie.

Dice inoltre l’onorevole Lanza: e come? voi arrestate il capo della  sicurezza pubblica e non ci dite nulla?  Disgraziatamente sono passati degli anni, e le cose si sono un pochino  dimenticate; fu spedito il mandato di cattura, ma io chiusi questoMinistero, dicendo: provvedere al servizio, perché c’è il mandato di  cattura; io non lo eseguirò finché non abbiate provveduto al servizio.

Mi venne un telegramma in cifre col quale mi si disse: sospendete  l’esecuzione del mandato di cattura. (Voci a sinistra: Ah! ah!) Si doveva  provvedere al servizio, era naturale.

Il mandato di cattura fu sospeso nella sua esecuzione ed è rimasto  sempre nel mio cassetto. E quando aspettava che si provvedesse al  servizio il questore, non so per qual combinazione, per quale indiscrezione, venne a conoscere l’esistenza del mandato, e si allontanò  precipitosamente. (Ah! ah! a sinistra) Il mandato di cattura era nel mio fodero, io non poteva eseguirlo perché  il Ministero l’aveva proibito, e non avrei trovato forza per eseguirlo.

Avemmo dunque il fatto poco edificante di vedere questo imputato, che poteva per altro essere innocente ma contro il quale vi era un  mandato di cattura, girare di città in città e fare uscire articoloni sopra tutti i giornali che colpivano col discredito, che calunniavano ed ingiuriavano tutti i magistrati di Palermo, occupati per quei procedimenti.

Passando ad altro, l’onorevole Lanza diceva: però i reati aumentarono; dal 1872 in poi data il grande aumento di reati.

Ma io ho l’onore di ricordare all’onorevole Lanza che durante quei 4 o 5 mesi del 1871 di energica azione di giustizia contro quella parte di sicurezza pubblica che noi credevamo di natura cancerosa, avemmo  nelle due parti della provincia, dove l’azione giudiziaria si estese con  vigore, la diminuzione di oltre il 25 per cento dei reati immediatamente.

Anzi io conservo, oltre le statistiche pubblicate nella gazzetta ufficiale, un rapporto del procuratore del Re che mi diceva che in quelle stesse  zone di territorio, i reati di sangue specialmente erano in una diminuzione  molto sensibile e molto significante. (Bisbiglio) Che poi dopo il 1871 i reati aumentassero potrebbe essere attribuito a ben altre cagioni che io non ho investigato, ma che investigherà la Commissione d’inchiesta.

Finalmente l’onorevole Lanza ha detto: il processo fallì, quantunque il procuratore generale accumulasse prove sopra prove.

Io faccio riflettere all’onorevole Lanza che il procuratore generale, secondo la procedura, non fa processi; come vuole il Codice di  procedura penale, il processo era affidato ad un istruttore, io non lo  guardava neppure: anzi, per massima delicatezza, avendo il Governo  mandato un consigliere apposito da Catanzaro (Ah! Ah! a sinistra), per massima delicatezza, io non mi opposi che tutte le carte passassero  precisamente nelle mani di questo consigliere che aveva mandato il  Ministero. Dunque vede che io non ne sono responsabile.

Quanto poi all’altra parte del discorso dell’onorevole Lanza, in cui egli, leggendo taluni frammenti, ha voluto, secondo il suo modo di  vedere, persuadere la Camera che poi gli indizi non erano così gravi,  mi perdoni l’onorevole Lanza, io riconosco in lui un uomo di Stato, come presidente del Consiglio dei ministri gli faccio di cappello, lo rispetto, ma mi scusi, in quanto a discutere sopra un processo, se io  volessi seguirlo su questo terreno, non so chi dei due potrebbe vincere, e se pigliassi il processo nelle mani, gli dimostrerei, con evidenza matematica, che le conseguenze che egli ha tratto da quelle osservazioni,  sono tutt’altre da quelle che egli accennava. Finalmente egli parlò della  pubblicazione della requisitoria, e ne fece un’accusa a me.

È vero, la pubblicazione aveva una cert’aria di ostilità, lo confesso; ma, prima di tutto, una pubblicazione contraria alla legge non era, perché  noi avevamo avuto la pubblicazione di due requisitorie. Avevamo avuto  la pubblicazione della requisitoria nel processo Lobbia, pubblicata  a Firenze; e nel 1873 avemmo la pubblicazione della requisitoria del  procuratore generale Botti nella causa del Plebani. Quindi non era un  fatto illegale. Riconosco però che in quella causa la pubblicazione di quella requisitoria era qualcosa di grave. Ma questa volta domando io le attenuanti. Si metta nei miei panni l’onorevole Lanza, e poi si  pronunzi.

Un procuratore generale che per quattro o cinque mesi si trovò abbandonato dal Governo, abbandonato pure da una parte della magistratura,  che si trovò sotto la minaccia della maffia, ed i carabinieri reali erano i soli che guardarono la sua vita, colle dimissioni date, e  fermo a mantenerle ove le cose progredissero in quel modo, mi pare  che tutto questo debba attenuare assai il fatto.

Io dissi tra me: io me ne andrò; i giornali d’Italia, e i giornali ufficiosi  specialmente, spargevano di continuo menzogne e villanie. Non so  cosa si farà da questo magistrato venuto da Catanzaro; il processo potrà fallire; poi il pubblico non ne saprà niente; ed allora questi giornaloni, che hanno già preparata l’opinione pubblica, chi sa che cosa potranno dire; diranno che Tajani è un calunniatore, e bisognava  che avessi degli amici molto potenti, perché, invece di calunniatore, mi chiamassero pazzo.

Allora che mi restava a fare? Badai agli affari miei; e siccome non  aveva altro a salvare che la mia dignità, la mia coscienza e la mia indipendenza, credetti bene di andarmene. Mi feci fare una copia di quei  documenti che potevano servirmi in circostanze future, e pubblicai  una sola delle requisitorie, quella scritta da me, perché il pubblico  sapesse di che cosa si trattava. Ecco tutto.

Dopo ciò lasciai la mia residenza, scrivendo al ministro, che se egli  non accettava le mie dimissioni, la mia dignità non mi permetteva  di rimanere. Di quello che si fece dopo, io non me ne occupai più.

Io credo con questo di avere risposto categoricamente a tutto quello  che ha detto l’onorevole Lanza intorno a questo processo.

Quanto al suo ordine che accenna ad una Commissione d’inchiesta speciale, io domanderò: a quale scopo? A me pareva che la stessa  inchiesta sulle condizioni di Sicilia, potesse anche occuparsi… (No!  No! A destra – Rumori)

PRESIDENTE. Si deciderà. Non interrompano.

Tajani. Ma, Dio buono! Conoscere le condizioni di sicurezza pubblica  in Sicilia, non consiste forse in molta parte nello esaminare se i fatti  da me detti siano o non siano veri?  Quanto a me la mia persona non è punto in questione, poiché, ripeto, i fatti da me asseverati risultano da documenti ufficiali e da fonti le meno sospette. Io desidererei che fossero dichiarati inesatti, perché  allora si salverebbe il Governo, e si chiamerebbe a dare conto del loro  operato coloro che hanno scritti questi documenti, che sono ufficiali  dei carabinieri, procuratori del Re, istruttori, comandanti dei militi a  cavallo, ecc. (Risa di approvazione a sinistra) […]. Dopo un ulteriore intervento di Lanza, aveva preso la parola il ministro di  Grazia e giustizia Cantelli, con un discorso fortemente polemico verso Tajani,  nel quale fra l’altro lo aveva minacciato di portare avanti la querela per calunnia  presentata, dopo la sentenza di assoluzione, dalle persone da lui accusate, per la  pubblicazione a stampa della requisitoria. «Quella querela – aveva detto Cantelli – non poté aver luogo perché diretta contro un funzionario […] ma ora che  l’onorevole Tajani è spogliato di questa qualità […] non avrà più la stessa egida  che lo copre».

Tajani. Chiedo di parlare per un fatto personale.

PRESIDENTE. Per un fatto personale ha facoltà di parlare l’onorevole Tajani.

Tajani. Io non ho animo di seguire l’onorevole ministro guardasigilli sopra un terreno, dove egli, con un linguaggio più accentuato di quello  dell’onorevole Lanza, ha cercato di distrarre l’attenzione della Camera da una sequela di fatti da me denunziati e che avevano profondamente  impressionata la Camera per costringerla su di un fatto personale.

Io sono ben dolente che noi abbiamo dovuto attendere la parola del  guardasigilli, che deve essere sempre la parola del più pacato dei ministri.

(Benissimo! Bravo! Applausi a sinistra), per vederci portati su  questo terreno.

Io ho saputo mantenere la maggior serenità dell’animo nella piena coscienza  della verità che io venni ad attestare, non nell’interesse di partiti,  ma nell’interesse di un’altissima causa. E perché non voglio seguirlo su  questo terreno, io non farò che rettificare due fatti, dopo avere respinto col maggiore disdegno la minaccia che egli ha ardito dirigermi. (Bene!  Vivi e prolungati applausi a sinistra – Movimenti a destra)

PRESIDENTE. Facciano silenzio! Tajani. E tanto più la respingo, in quanto che questa minaccia si dirige contro un già magistrato altolocato, che ha rinunciato a tutto, ed è  ritornato nel seno della famiglia non ricco, e che vive del suo lavoro.

(Bravo! Bene!) Se questa virtù non si rispetta, onorevole guardasigilli, dove mai troverete  virtù da rispettare da oggi in poi? (Benissimo! a sinistra) Fatta  questa protesta, rettifico due fatti.

L’onorevole guardasigilli dice: l’onorevole Tajani mi ha invitato a dire  il mio parere su una sentenza.

Onorevole guardasigilli, non è questa la verità.

Io ho detto che la sentenza contro il questore di Palermo contiene due  parti: l’una riguarda il questore, e quantunque la prova del mandato è  quasi sempre indiziaria, pure in quel processo vi era nientemeno che  la confessione dell’imputato, attestata da un magistrato testimone.

Ma passiamo sopra questo.

Io gli [sic!] ho detto che poi vi è un’altra parte della sentenza, la quale  constata la reità degli esecutori materiali dell’assassinio, che eranoun mero vizio di procedura non poteva andare innanzi, ma che i sei  erano colpiti da prove gravissime e molteplici. E la sentenza principia  perfettamente con questo ragionamento, coll’enumerare innanzitutto  gli elementi che la procura generale aveva sviluppati contro quegli  imputati, e poi dice: «non solo vi sono questi elementi, ma ve ne sono  degli altri ancora», e la Corte dové essere dolente che, solamente per  un vizio di procedura, non poté mandare innanzi alle Assise quegli scellerati.

Rettificato così questo fatto da me, poiché l’onorevole guardasigilli  non ha voluto farlo, non mi resta che rettificare un’altra sua parola.

Quando parlava delle dimissioni da me offerte, e non accettate, egli  diceva: ma come pretendevate che noi le accettassimo? Non potevamo  accettarle. Ha ragione l’onorevole ministro. Ma, quando le dimissioni non si potevano accettare, si dovevano respingere; che cosa era quella  formula: noi sospendiamo il provvedimento?

Signori, molti giorni prima della sentenza, e prima, mi pare, che si pubblicassero le mie requisitorie, il sindaco di Palermo commendatore  Peranni, senatore del regno, ha mandata una carta di visita ad  un sostituto procuratore generale del mio ufficio, dicendogli che egli  partiva per Roma, e che amava vederlo subito. Il sostituto procuratore  generale si è recato dal sindaco, il quale gli ha detto: in questo  momento io vengo dall’essere chiamato dal generale Masi…  Una voce. È morto.

Tajani. Se è morto il generale, è vivo il senatore Peranni. Dunque il  sindaco gli diceva: in questo momento vengo dall’essere chiamato  dal generale Masi, il quale mi ha detto che preparassi il municipio al  ritorno di tutto il personale che ha dovuto allontanarsi per effetto del  processo, perché la sentenza era già concordata, o una frase analoga.

(Sensazione) Il commendatore Peranni, onestissimo uomo, rimase sbalordito da  questa dichiarazione, e vide che ormai non vi era più ombra di pudore  (Bravo! a sinistra), e soggiunse al magistrato che aveva invitato in sua  casa: andate a dirlo al procuratore generale.

Il sostituto è venuto a riferirmi con dolore quelle confidenze, ed io non  ho potuto non ammirare nel contempo e il suo grande sentimento di  giustizia e la sua ingenuità.

Al cavaliere Guccione, presidente della Corte di assise, fu tenuto lo  stesso discorso, non ricordo se nello stesso giorno: preparare la magistratura  al ritorno del passato, perché la sentenza sarà favorevole e  il Tajani è perduto; e lo egregio cavaliere Guccione è venuto da me  subito, e mi avvertì di questo fatto che concordava con quello del  commendatore Peranni. (Rumori e grida di approvazione a sinistra) Questi sono i motivi per cui io deposi la toga. Ricordo pure che in  quella stessa circostanza l’ottimo presidente Guccione mi aggiunse  che avrebbe fatto togliere dal ruolo la causa di quel Ciotti, accusato  pel furto del museo, perché temeva che, con quell’ambiente che si  andava creando, il Ciotti poteva uscirne assolto.Io consentii; fu messo a ruolo in tempi migliori ed il Ciotti fu condannato.

(Bene! a sinistra) Io domando ora all’onorevole guardasigilli, che ci viene a dire che  contro gli usi noi abbiamo spedito mandati di cattura contro un questore.

Ma che si doveva fare? Noi eravamo minacciati di coltello (Rumori a destra – Sì! Sì! a sinistra); il sostituto procuratore del Re, ottimo ed energico magistrato, il signor  Ignazio Filì, nel recarsi per l’istruzione di quel processo, al passaggio  di un ponte è stato investito e minacciato. Egli è venuto da me perché voleva che immediatamente si procedesse, ed io versava acqua gelata  per calmare, per non complicare la questione.

Un altro testimonio, un magistrato, nella causa Albanese è stato una  sera perseguitato e minacciato di revolver, e dovette ricoverarsi tutto  spaventato non ricordo come e dove per isfuggire il pericolo.

Ma che mi parla, onorevole guardasigilli, del mandato di cattura? Si  finisca una buona volta, perdio! (Bravo! a sinistra) Perché abbiamo  spedito il mandato di cattura? Ascoltino: altri motivi, oltre quelli accennati  (Segni d’attenzione), vi erano nelle campagne di Parco due  giovinotti, uno di 19 e l’altro di 17 anni, figli di un piccolo proprietario,  i quali per un’imputazione, non so se vera o falsa d’omicidio, erano  latitanti. Essendo figliuoli di una persona piuttosto agiata non difettavano  d’alimenti, non erano capaci di rubare, e le guardie campestri  non li arrestavano, perché essi dicevano che appena fatto il processo  si sarebbero presentati, non volendo che risparmiarsi un po’ di carcere  preventivo. Ebbene, a quei disgraziati fratelli… è venuto nel pensiero  di spedire una domanda all’autorità giudiziaria nella quale dissero: voi  procedete contro agenti di sicurezza pubblica e noi vogliamo darvi  delle prove, e denunziarvi dei fatti, dateci un salvacondotto. È l’unico  caso nel quale il salvacondotto si potesse concedere e fu spedito, per  quattro o cinque giorni al più. Onorevole guardasigilli, la mattina del  quinto giorno noi li aspettavamo, allorché giunge il procuratore del Re  di Palermo, cavaliere Brozzi, con pallido viso… Che cosa era avvenuto? I testimoni che aspettavamo erano stati in quella notte tutti e due  fucilati. (Segni di viva indignazione a sinistra) Onorevole guardasigilli,  dovevamo dunque aspettare che il piombo o il ferro giungesse sino  alla nostra toga? Così ancor prima delle mie previsioni io ho scritto  al procuratore del Re, perché richiedesse il mandato di cattura, che il  giudice istruttore spedì immantinente.

Si veda adunque come noi mettevamo in pericolo la nostra vita tutti i giorni, tutte le ore, ed ascoltino ancora, o signori! All’alba del 20 settembre del 1871 vennero alla mia casa il procuratore  del Re con un tenente dei carabinieri, il cavaliere Scinia se mal non  ricordo e un delegato di sicurezza pubblica, i quali mi pregarono di  non uscire quel mattino, perché, col pretesto di fare una dimostrazione  per l’anniversario dell’ingresso delle nostre truppe in Roma, le  persone interessate avevano raccolto della maffia allo scopo vero di  uscire in dimostrazioni ostili verso la mia persona. Dissi no; io esco,  ed esco, perché abbandonato da tutti, non mi regge che il sentimento  della giustizia ed il coraggio civile. (Bravo! a sinistra)  Esco, e solito a recarmi al mio ufficio in carrozza, in questo giorno,  dissi, mi vi recherò a piedi, disarmato. (Bene! a sinistra) Amando solo  di preservare la mia carissima famiglia, risparmiata questa, io dovevo  ancora avere interesse che qualsiasi attentato fosse perpetrato nella  persona del procuratore generale, nel proprio ufficio e nell’esercizio  delle proprie funzioni (Bene! a sinistra); così il reato sarebbe stato più  grave. Così feci, ma la dimostrazione non ebbe più luogo, imperocché,  lo dico con sentimento di gratitudine, il cavaliere Rossi oggi prefetto  di Girgenti, allora consigliere delegato, ha mandato a chiamare i  caporioni, e disse loro: Io so qual è lo scopo che voi vi prefiggete; i  primi dieci uomini che si riuniranno nel giardino Garibaldi, dove  è l’appuntamento, io manderò voi alla Vicaria. E così ha strappato  a coloro il contrordine e la dimostrazione non ha avuto più luogo.

E poco dopo la mia partenza il cavaliere Rossi, da consigliere delegato  di Palermo, fu retroceduto a sotto-prefetto di Frosinone!

Ho finito.

(Applausi a sinistra)

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